Il Sei Nazioni, il Pro14 e la CVC: una montagna di soldi e una domanda che bisogna farsi

Vantaggi, opportunità, nuovi scenari: l’ingresso del gruppo di private equity nel gotha della palla ovale europea mette il rugby in una condizione tutta nuova, e sposta il confine. Ed  espone anche a rischi culturali mai affrontati prima. 

Se ne parla da tempo, si attendono solo comunicati ufficiali con le cifre definitive. Arriveranno. Parlo di CVC Capital Partners e del suo “ingresso” nel board del Sei Nazioni e del Pro 14. Ieri Duccio Fumero su R1823 ha prefigurato una (verosimile) ripartizione economica di quei soldi. E sono numeri pesanti, visto che per la FIR si parla di circa 45 milioni euro netti.
Una vicenda destinata a cambiare non poco il rugby europeo. Le opinioni sono in larga parte favorevoli, vista l’abbondante immissione di liquidità fresca nelle casse di tutte le federazioni coinvolte. Al momento però nessuno sembra porre l’accento su un aspetto che sul medio-lungo periodo avrà un peso non indifferente, nessuno sembra porsi la domanda più importante: quali sono gli obiettivi di CVC?

La risposta è semplice e complicata allo stesso tempo. E’ facile perché un gruppo di private equity cerca una sola cosa: il profitto. CVC ha capacità di investimento per oltre un centinaio di miliardi di euro e interessi nei settori più svariati. CVC vuole fare i soldi, sono bravi a farli e se guadagnerà anche nel rugby significa che anche i suoi partner lo faranno, FIR compresa. La domanda è però: a che prezzo? Perché una volta che tu vendi una cosa poi non ce l’hai più. Le quote vendute dalla federazioni sono ora fuori dal loro controllo.
Può sembrare un gioco di parole, ma non lo è. E’ il vero nocciolo della questione. CVC non è una entità rugbistica, non è un qualcosa che nasce all’interno del mondo ovale o che ne condivide lo spirito, qualsiasi cosa possa significare. E’ una macchina da soldi, e resterà in quel mondo fino a quando sarà economicamente fruttuoso. Cercherà profitti in ogni modo. CVC si siede al tavolo con una serie di entità che pur con le loro innegabili differenze provengono tutte dallo stesso humus, che condividono una visione, un sentire. CVC invece è un alieno.

E’ una compagnia che spingerà l’acceleratore verso confini e limiti che le federazioni non avrebbero mai immaginato. O che comunque non lo hanno fatto finora. E’ una opportunità, indubbiamente, è una sfida. E’ un rischio, non so quanto calcolato da parte delle varie federazione. Una spinta iper-capitalistica, se volete passarmi il termine, potrebbe lasciare strascichi non indifferenti anche sulla federazione inglese e a cascata sul suo movimento, ma Londra è tra tutte quella che potrebbe incassare meglio gli eventuali (inevitabili?) contraccolpi. Le altre?
Intendiamoci, ci sono innegabili vantaggi e possibilità che si aprono. Il rugby è però una disciplina fortemente identitaria e ora in uno dei suoi sancta sanctorum, forse quello più importante, entra un qualcosa di totalmente avulso da quella che è la sua cultura e che potrebbe sia esaltarlo che annichilirlo. Toh, annichilirlo magari no, ma cambiarne radicalmente l’anima sì. Qualche domanda bisogna farsela e la più importante è: quanto ed eventualmente cosa siamo disposti a perdere per diventare più ricchi?

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Nuovi sponsor, vecchie abitudini: si dice la durata ma nulla sulla vil pecunia. Glasnost dove sei?

ph. Fotosportit/FIR

Dopo 12 anni sulle maglie azzurre non comparirà più la scritta Cariparma ma Cattolica Assicurazioni. Si vocifera di un accordo al ribasso per la FIR che però non dà cifre ufficiali

“Ma quale è il supporto economico che la FIR ricava da Cattolica e dagli sponsor azzurri? Mah. Non si sa”. A chiederselo – e a scriverlo – è stato un paio di giorni fa il blog Il Nero Il Rugby in commento all’annuncio del nuovo contratto di sponsorizzazione che legherà la nazionale azzurra a Cattolica Assicurazioni per i prossimi 7 anni. Una domanda legittima, visto che conosciamo la durata del contratto di quello che è e sarà il main sponsor dell’Italia a partire dai test-match del prossimo novembre, ma nulla sappiamo della parte che più conta, ovvero quella riguardante la vil pecunia.
Nel comunicato diffuso dalla FIR lo scorso 3 luglio non ci sono cifre, ma d’altronde non c’era la benché minima indicazione finanziaria nemmeno nella nota federale con cui il 19 giugno la Federazione e Crédit Agricole Cariparma annunciavano la separazione delle loro strade dopo ben 12 anni (fatemela tirare sono per 30 secondi: ero stato il primo a scriverlo): c’erano le pacche sulla schiena tra i maggiori rappresentanti dei due enti coinvolti, il ringraziamento reciproco e l’altrettanto reciproco augurio di un futuro luminoso, ma nessuna cifra. Sì, qualche dato generale e assai generico sulla crescita del movimento in termini di tesserati, ma nulla su quanto è stato investito e su quale siano stati gli eventuali ritorni. Zero. Eppure quale migliore occasione per fare un bilancio?

Ma d’altronde la cosa non può stupire visto che la trasparenza non è mai stato il punto forte delle pezze contabili pubblicate dalla FIR. Giusto per essere chiari: la federazione non viola nessun regolamento o normativa, quei documenti sono assolutamente validi e redatti in maniera conforme alle normative vigenti. Detto questo basterebbe poco per essere un po’ più chiari e trasparenti. Basterebbe volerlo. Nei bilanci FIR, è un esempio che ho fatto più volte, non esiste una chiara voce “Zebre” che ci dica esattamente quanto costi la franchigia federale, ma i capitoli di spesa sono spacchettati e separati sotto varie voci. Tutto lecito? Sì. Tutto chiaro? No. Quindi che anche in questo caso non si sappia l’esatta quantità di soldi che entreranno in cassa con il nuovo sponsor non stupisce. Però lasciatemi il rammarico.

Nell’articolo da cui ho preso il via si parla di indiscrezioni secondo le quali la parte economica dei nuovi contratti – quello di Macron compreso – sia notevolmente inferiore a quelli in vigore in precedenza. Sono solo rumors che circolano da un po’, vanno quindi presi con le pinze, e trattati per quello che sono però se la cosa fosse vera (anche qui) non dovremmo stupirci: il campo continua a non dare risultati e l’effetto “ingresso nel Sei Nazioni” si è ormai esaurito da tempo. Ma fermiamoci qui: se un giorno la FIR vorrà rendere note quelle cifre ne parleremo nello specifico.
Qualcuno potrebbe dire che nemmeno gli altri rivelano certe cifre, non tutti almeno. E’ vero, ecco un esempio pratico: questa è la voce sponsorizzazioni del Bilancio Preventivo FIR del 2017, il documento contabile reso pubblico più recentemente dalla nostra federazione
Questo è quello che scrive la federazione inglese nell’Annual Report 2017

Come vedete la voce “sponsorship” non è dettagliatamente esplicitata. Detta in altre parole: quanti soldi dà Canterbury alla RFU? Non lo si sa nel dettaglio.
Però due cose vanno dette. La prima, moto banalmente, è che non è che se una cosa non la fanno gli altri allora non devo farla nemmeno io…
Secondo: la mancanza di chiarezza della RFU in quell’ambito specifico è controbilanciata da una trasparenza diffusa e nel Report (che comunque va ricordato che non è il documento contabile tout court ma una brochure riepilogativa ed esaustiva di tutto il lavoro della federazione) si arrivano ad esplicitare anche – ed è solo un esempio – gli stipendi delle massime cariche che la guidano, dal presidente Bill Beaumont in giù. I due documenti non sono assolutamente equivalenti sotto il profilo della trasparenza e della loro immediatezza. Ma come dicevo prima: basterebbe poco, basterebbe volerlo.

Rugby e salute: infortuni e concussion in crescita, l’Inghilterra chiede l’intervento di World Rugby

Un rapporto sulla stagione 2016/2017 del rugby professionistico inglese conferma la luce rossa accesa già negli anni precedenti. Ci si infortuna tanto durante le gare e troppo negli allenamenti. La RFU chiede a World Rugby di cambiare l’altezza del placcaggio consentito dalle norme. E nell’occhio del ciclone ci finisce pure Eddie Jones

Oggi accendiamo i riflettori sulla salute dei giocatori, tema di cui non si parlerà mai abbastanza, e nello specifico su un report inglese riguardante la stagione 2016/2017 commissionato dalla RFU, dalla Premiership Rugby e dalla Rugby Players ‘Association (ah, che bello avere tutte queste istituzioni che nonostante le inevitabili frizioni lavorano comunque per un comune obiettivo. Chiusa la parentesi).
Il documento si chiama The Professional Rugby Injury Surveillance Project e, come ci dice il Times, la “revisione degli infortuni nel rugby professionistico in Inghilterra ha registrato un aumento delle concussions per il settimo anno consecutivo (…) ha riscontrato un allarmante aumento del numero e della gravità degli infortuni nelle partite e negli allenamenti”.
Poi un po’ di numeri, visto che gli infortuni sia nel corso delle gare che negli allenamenti hanno registrato dei tassi superiori a quelli considerati accettabili dagli estensori del report. Ancora il Times:C’è stata una media dell’ultima stagione di 3,8 infortuni per partita nella Aviva Premiership, con i giocatori esclusi per una media di 38 giorni. La commozione cerebrale è stata l’infortunio più segnalato, pari al 22%”.

Numeri preoccupanti che hanno spinto Simon Kemp, il responsabile medico della RFU, a chiedere l’intervento di World Rugby: l’organo che gestisce la palla ovale a livello mondiale dovrebbe – secondo le richieste del medico – cambiare l’altezza del placcaggio consentito dalle norme e al contempo applicare pene più severe per i placcaggi a testa alta: “Vorremmo che World Rugby prendesse in considerazione il pensiero di ridurre l’altezza legale del placcaggio da sotto la linea delle spalle, perché poiché il margine di errore è molto basso – si legge sul quotidiano inglese – abbiamo bisogno di un messaggio più chiaro su ciò che costituisce un approccio sicuro e non sicuro”.
Nel documento si parla di tassi di crescita tali per i quali usare parole come “inquietante” non è affatto sbagliato: il numero delle collisioni è cresciuto del 10% all’anno negli ultimi 4 anni e le previsioni per la stagione in corso parlano di una ulteriore crescita. Un numero elevatissimo di infortuni (il 36%) è stato registrato nel corso degli allenamenti e la tipologia più comune rimane sempre quella della concussion. Una curiosità, chiamiamola così: il report per la prima volta registra un numero più alto di infortuni su campi sintetici che non in quelli nella tradizionale erba. Che questo ultimo dato sia da spiegare con l’esplosione numerica di quel tipo di campi è cosa possibile ma non certa, bisognerà attendere i numeri dei prossimi anni. Da parte sua la RFU ha difeso il suo piano di progettazione e costruzione di campi artificiali e assieme al board della Premiership e dalla Rugby Players ‘Association ha presentato un memorandum in 8 punti (non svelati ancora alla stampa) per rispondere in maniera adeguata ai dati contenuti in questo The Professional Rugby Injury Surveillance Project.

Chiudo con un aspetto derivante dal rapporto che è stato sottolineato dal Guardian: “Le sedute di allenamento di Eddie Jones saranno probabilmente sottoposte a controllo (…) Jones conduce sessioni di allenamento notoriamente estenuanti e ha dichiarato in passato che quando i suoi giocatori si uniscono alla nazionale non sono ai livelli richiesti per il rugby internazionale”. l’ennesima grana dalla stampa britannica per l’head coach dell’Inghilterra, reduce da un Sei Nazioni davvero negativo e passato in due mesi dall’essere quasi un eroe a il capro espiatori di tutti i problemi del rugby d’Oltremanica. Un atteggiamento che da quelle parti non è certo una novità.

IN AVANTI POPOLO! – Ct o Director of Rugby? O’Shea deve decidere cosa fare da grande: parola di Woodward

ph. Fotosportit/FIR

In una intervista a un quotidiano irlandese l’uomo che ha fatto da mentore a O’Shea non usa giri di parole: “Un giorno dovrà guardarsi allo specchio, non puoi continuare a perdere mentre stai dicendo che stai sviluppando. Non puoi fare due lavori, e lui lo sa”

Qual è il ruolo di Conor O’Shea? E’ un ct? Un Director of Rugby? Entrambe le cose? E’ una domanda che spesso addetti ai lavori si fanno. Una questione che secondo alcuni è importante, secondo altri invece lascia il tempo che trova.
Quale che sia l’opinione di ognuno non è comunque facile rispondere. Perché la FIR nel comunicato del 24 marzo 2016 in cui ufficializzava l’arrivo del tecnico irlandese scriveva questo:

La Federazione Italiana Rugby informa di aver raggiunto un accordo quadriennale con Conor O’Shea che ricoprirà dal primo giugno 2016 il ruolo di Commissario Tecnico della Squadra Nazionale e Responsabile della Nazionale Emergenti.

Qui la faccenda sembra abbastanza netta, ma è parso chiaro sin da subito che i compiti e il ruolo di O’Shea non erano quelli di un “normale” ct, di sicuro non come quelli che lo avevano preceduto. Una struttura più ampia, più definita di cui l’ex coach di London Irish e Harlequins è il vertice e il coordinatore. Quindi, nei fatti, più simile a un DoR. Mansione che tra l’altro svolgeva già nei Quins.
O’Shea non è un uomo di campo, non del tutto almeno. E’ più un programmatore, un coordinatore. Meglio: uno sviluppatore. D’altronde se la federazione inglese nel 2005 lo assunse come Director of Regional Academies un qualche motivo ci sarà. Fino all’estate del 2009 ha fatto da coordinatore a una rete di ben 14 accademie con il compito di monitorare, sviluppare e far crescere giovani giocatori per instradarli verso l’elite del rugby di Sua Maestà. Mica bruscolini.

Vi chiederete: ok, va bene, ma perché ci racconti tutto questo? Perché lo scorso 10 febbraio, giorno di Irlanda-Francia, il quotidiano di Dublino The Independent ha intervistato Clive Woodward, indicato come l’uomo “che ha cambiato la vita di Conor O’Shea”, l’uomo che ha portato il futuro tecnico prima ai London Irish e poi in RFU. Una sorta di mentore, oltre che amico. E cosa dice a un certo punto il ct dell’Inghilterra campione del Mondo del 2003? Che l’attuale responsabile della nazionale azzurra deve decidersi:

“Conor sa come la penso, dal momento che il gioco è diventato professionistico, devi essere un allenatore, non puoi distrarti. Joe Schmidt è un allenatore, Eddie Jones, Pep Guardiola: ci si confonde tra coaching e management.
Devi essere in una tuta da ginnastica, sul campo, non sei lì per sviluppare, il tuo ruolo è quello di creare una squadra di successo e grandi giocatori e questo svilupperà il gioco. Nel momento in cui diventi distratto diventerai il secondo ed è quello che dico a Conor: se fai entrambe le cose, potresti cadere in un grosso buco. Devi essere concentrato, devi fare una cosa o l’altra, non è più come dieci anni fa.
L’Irlanda non sostituirà mai Joe Schmidt con nessuno che non sia un allenatore eccezionale: Conor avrebbe dovuto fare qualcosa di eccezionale per poter ambire ad allenare la nazionale irlandese, forse il director of rugby è il miglior ruolo per lui. Ma non lo sapremo, perché sta cercando di fare entrambe le cose. Un giorno dovrà guardarsi allo specchio, non puoi continuare a perdere mentre stai dicendo che stai sviluppando. Non puoi fare due lavori, e lui lo sa”.

Una chiusa che fa riflettere, visto che è stata pronunciata da chi conosce O’Shea come le sue tasche e che potrebbe presagire – condizionale d’obbligo – a qualche cambio per il post-2019 (di ruolo, non altro: credo che O’Shea rimarrà dalle nostre parti ancora a lungo. E penso che perderlo sarebbe davvero grave).

Rugby di base: gli Stati Generali dal basso? In Inghilterra hanno fatto qualcosa di simile


Due questionari, una ricerca, 28mila risposte da parte di dirigenti, ex giocatori, arbitri e genitori per capire cosa va w cosa non va nel movimento che non finisce sotto i riflettori dei media. E per intervenire.

Come migliorare il proprio movimento? Come cercare di avvicinare sempre più persone alla palla ovale? Ancora meglio: come cercare di ottenere queste cose in Inghilterra, ovvero del paese che il rugby lo ha inventato e che può contare su un paio di milioni di individui coinvolti? Domande legittime, domande che in realtà si fanno tutte le federazioni per quanto riguarda il proprio bacino, ma lassù nelle terre d’oltremanica cercano a chi di dare risposte. Risposte vere, dal basso, non da un qualche “alto” che seppur legittimato da una qualche elezione decide di interpretare la realtà che lo circonda.
La RFU – abbiamo letto su OnRugby qualche giorno fa – ha messo in piedi un paio di ricerche con le quali ha intervistato 28mila persone: la National Rugby Survey e la Age Grade Player Surveys, attraverso le quali ha fatto uno screening sullo stato dell’arte. A rispondere sono stati soprattutto dirigenti di club, ma anche ex giocatori, arbitri e genitori di bambini che frequentano il mini rugby.
Diversi i punti emersi: una costante crescita del numero di giovani che si avvicinano alla palla ovale (probabile effetto-traino delle campagne pre e post RWC2015), la difficoltà perle ragazze di trovare club vicini a dove vivono per poter giocare, un alto numero di abbandoni al termine del percorso scolastico sia esso liceale o universitario: l’ingresso nel mondo del lavoro spinge molti ad appendere gli scarpini al chiodo. Emerge dalle ricerche la richiesta da parte di chi già lavora di praticare il rugby in maniera continuativa ma in qualche modo svincolata dalle pratiche di tesseramento con un club e da quelle più burocratiche. Infine ad attirare giovani a giocare a rugby è lo spirito di squadra mentre vincere rimane un aspetto secondario. Il Rugby Development Director della Federazione, Steve Grainger, si è detto soddisfatto dei risultati e della partecipazione alla ricerca che “ha dimostrato quanto attaccamento e impegno vi siano nella base.Ci sono tante cose positive, ma no mancano criticità e aspetti in cui dobbiamo migliorare: ora le analizzeremo e agiremo“.