L’Italia e il Sei Nazioni: soldi, soldi e ancora soldi. Tutto giusto, ma lo sport?

Un articolo di OnRugby dettaglia tutti i motivi per cui l’Italia deve rimanere nel torneo. E le cose scritte sono tanto argomentate quanto inattaccabili. Ma il cuore del problema viene evitato, ancora una volta

“Che cosa ci fa l’Italia (ancora) nel Sei Nazioni?” è il titolo. Il sommario dice: “Dopo l’editoriale del Times che auspica l’uscita dell’Italia dal Torneo abbiamo provato a fare un’analisi sul perché sia una cosa senza senso per tutti”.
Sto parlando di un articolo pubblicato da OnRugby in cui si elencano in maniera dettagliata e molto ben argomentata tutti i motivi per cui l’Italia deve rimanere nel Sei Nazioni. Non sto qui a dirvi quali siano – leggete il pezzo pubblicato – perché sono totalmente d’accordo con quanto scritto dal portale, le motivazioni sono ineccepibili.

Però c’è un però. Nell’articolo si parla di tutto, ci sono dati economici, numeri, ricadute finanziarie e difficoltà organizzative nelle eventualità prese in esame, ovvero quella di un ritorno al Cinque Nazioni o all’introduzione di un sistema di retrocessione/promozione, ma manca una cosa: lo sport.
Non vivo su una pianta, il professionismo è business, sponsorizzazioni, diritti televisivi. Soldi. Ma rimane sempre sport, con i risultati del campo che devono dare senso al tutto. Nell’altrimenti accuratissimo articolo in questione c’è questa macroscopica assenza. Ai risultati della nazionale azzurra non viene fatto cenno, se non in maniera molto superficiale, quasi fossero un dettaglio secondario o di poco valore.
A me invece sembrano il cuore del problema, l’invitato di pietra di cui dalle nostre parti quasi nessuno si occupa in queste infinite e ormai rituali polemiche e discussioni sul fatto se l’Italia sia più o meno “unfit” per il Sei Nazioni.

L’opinione di Barnes sarà sicuramente poco conveniente da un punto di vista economico ma da un punto di vista sportivo è legittima, ha sostanza e si appoggia su dati concreti. Per dirla in francese: non è una stronzata, è un problema concreto.
Non vinciamo una partita nel torneo dal 2015, e io sarò anche un illuso ma non credo che dire “Roma è meglio di Tbilisi” ci farà vincere qualche gara in più. Voglio che l’Italia rimanga nel Sei Nazioni ben oltre il 2024, ma non perché agli inglesi piace farsi il fine settimana a Roma o perché “tanto non c’è nessuno che può sostituirci”. Perché per quanto sia vero a me mette una tristezza infinita ed è la strada migliore affinché prima o poi qualcuno con più fame e voglia possa avere le carte in regola per darci il proverbiale calcio nel culo.
E come diceva quel tale: non ho altro da dire su questa faccenda.

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Il Tinello di Vittorio Munari: l’Italia, il mondo e il Sei Nazioni in mischia con il Covid19

Il periodo meno preventivabile e difficile del rugby, alle nostre latitudini e nel resto di Ovalia. Quattro chiacchiere con Vittorio, senza dimenticare l’ennesima polemica sul Sei Nazioni: ma dalle nostre parti si guarda al dito e non alla Luna…

25, 24, 23, 22, 21, 20… L’Italia manda in orbita anche la Scozia più brutta

ph. Fotosportit/FIR

A Roma gli azzurri infilano la sconfitta consecutiva numero 25 nel Sei Nazioni: non vincono da 5 anni, tra le mura amiche addirittura da marzo 2013. Una gara sconclusionata, senza mordente contro avversari che hanno commesso una montagna di errori, ma se ne vanno con un 17 a 0 a loro favore. E franco Smith sembra avere già imparato la lezione sbagliata, quella delle dichiarazioni post-gara

Bene, cosa dire al giro numero 25 che non sia già stato detto e scritto in tutte le sue declinazioni nelle 24 sconfitte (consecutive) precedenti? Facile: nulla. D’altronde siamo sempre qua, fermi allo stesso punto: facciamo qualche tentativo di passo per allontanarci – una volta da una parte, un’altra volta dall’altra – ma alla fine non ci si muove mai.
Poi arrivano i ko come quello di sabato, francamente inguardabile. Come livello di bruttezza, impalpabilità tecnica e mentale se la gioca con la partita con la Francia di un anno fa, ma lì almeno 14 punti siamo riusciti a farli mentre contro la Scozia siamo rimasti a zero. Fermi al palo per la seconda volta in tre match (mai successo nel nostro Sei Nazioni).

L’Italia doveva vincere, la Scozia doveva vincere: alla fine di una gara in cui per lunghi tratti si è assistito alla fiera dell’errore si è imposta la squadra che ci ha davvero provato di più, quella con le idee più chiare. Inutile girarci attorno: la Scozia più brutta ci ha battuti e non ha subito nemmeno un punto, il resto sono chiacchiere. Poi possiamo dire però qui (pochissimi), però lì (ancora meno), ma il succo è quello. Gli azzurri hanno messo in mostra poche idee e pure parecchio confuse, hanno sofferto in mischia, i breakdown nemmeno parliamone. In affanno in difesa quando la Scozia decideva di giocare davvero ed evanescenti in attacco: siamo entrati pochissime volte nei 22 metri avversari e ogni volta che lo si è fatto la Scozia ha dominato nei punti d’incontro e rubato palla tutte le volte che i nostri non la perdevano.
I nostri avversari hanno conteso la palla solo quando è stato necessario e le ruck che andavano vinte le hanno portate a casa. Galles, Francia, Scozia… cambia l’avversario ma non il risultato: quando ci incontrano bastano alcune accelerazioni, un temporaneo aumento dell’intensità e si portano a casa la partita, senza eccessivi patemi.

Capitolo Franco Smith: ovviamente non è colpa sua, però ha subito imparato il mood “giusto” (virgolette sarcastiche eh) delle dichiarazioni post-partita: i ct che lo hanno preceduto ci hanno messo un anno, un anno e mezzo prima di arrivare ad arrivare alle frasi da difesa d’ufficio sentite sabato.
Non ha un ruolo semplice, doveva fare l’assistente e si ritrova suo malgrado head coach senza sapere ancora per quanto lo sarà. Poi c’è una sorta di avvitamento che andrebbe chiarito: doveva coadiuvare Conor O’Shea ma ora parla spesso della necessità di cambiare parecchie cose. Vero che il ruolo di assistente e di capo allenatore non sono la stessa cosa ma per diversi anni ci è stato detto dai vertici federali, tecnici e non, che la strada era quella giusta. ora invece pare che no. Qualcuno sa dirmi a che punto siamo?

L’italica capacità di fare spallucce e il Paradigma Uganda (e Germania)

Ce la si potrebbe cavare dicendo che tutto sommato l’Uganda al Mondiale 2018 era presente e l’Italia no, però fare spallucce serve a poco. Al massimo a mettere la polvere sotto i tappeto, cosa che dicono non serva un granché a risolvere i problemi. Dicono.
Io di rugby a 7 capisco poco o nulla, ma non bisogna essere esattamente dei geni per rendersi conto che è un codice capace di diventare un veicolo importante per qualsiasi movimento e che la preparazione tecnico/tattica/atletica del Seven può riversarsi in maniera positiva nel rugby a 15. E poi è uno sport olimpico, dovrebbe bastare questo a smuovere le acque. Invece.

Invece l’Italia va in Cile, a Vina del Mar, e nella prima giornata delle World Rugby Challenger Series – un torneo nuovo di zecca che assieme alla tappa di settimana prossima a Montevideo (Uruguay) “regala” otto pass per le World Series di Hong Kong – rimedia una sola vittoria e due sconfitte. Il Paraguay lo abbiamo battuto, Uganda e Germania ci superano. Uganda e Germania.Ripetiamolo: Uganda e Germania. Nella seconda giornata rimaniamo a zero contro l’Uruguay, ma va detto che la partita è viziata da due cartellini, di cui uno rosso inesistente.
Come dicevo, io di rugby a 7 capisco poco o nulla, ma due cose so metterle in fila. Tipo che è vero che in quel particolare codice alcune nazionali hanno trovato spazi di crescita e successi a loro preclusi nel rugby a 15, come le Fiji o gli Stati Uniti o il più sorprendente Kenya (che poi: farlo pure noi pare brutto?), ma Uganda e Germania rimangono movimenti ampiamente minori e minoritari. Non voglio mancare loro di rispetto, ci mancherebbe, ma per pareggiare i soldi che noi riceviamo ogni 12 mesi in virtù del nostro status privilegiato quei due dovrebbero mettere assieme le loro risorse di diversi anni. Parecchi anni. Eppure.

Mi si dirà che i soldi non sono tutto, ed è vero. Infatti servono anche idee, progetti, programmazione. Pure un po’ di culo – passatemi il francesismo – ma solo con quello non si va da nessuna parte.
Noi i soldi in linea teorica li abbiamo. Il CONI ogni anno versa alla FIR un tot di milioni perché il rugby è uno sport olimpico ma effettivamente quanta parte di quelle risorse vengono investite nel Seven? Chissà se il CONI chiederà mai conto di quei finanziamenti…
Il resto invece latita, parlo ovviamente delle idee, dei progetti e della programmazione. Al piccolo gruppo che segue il rugby a 7 non si può imputare nulla: Orazio Arancio, Andy Vilk e compagni di (dis)avventura ci mettono tutto l’impegno e l’entusiasmo del mondo. Ma dire che predicano nel deserto è limitativo.

La litania la conosciamo tutti a memoria: non abbiamo un campionato dedicato, i club non fanno i salti di gioia (eufemismo) quando un loro giocatore viene convocato per il Seven, non abbiamo di conseguenza atleti “dedicati” e quando la cosa sembrava in dirittura d’arrivo – ricordate la famosa accademia che sarebbe dovuta sorgere presso le Fiamme Oro? – è stata fatta sparire dal tavolo senza che nessuno cercasse di spiegare un perché che avesse un minimo di senso.
Però a quanto pare va bene così. Forse la gestione di questi anni del rugby a 7 è stata quella giusta, e sono gli altri che non hanno capito nulla. Tutti gli altri. Perché se prendiamo la classifica finale del Mondiale 2018 giocato a San Francisco ci accorgiamo che i nostri principali partner/avversari c’erano tutti e il più attardato era il Galles con un 11° posto che noi avremmo fatto passare per un mezzo trionfo per diversi anni a venire.
Ma sì, sarà così, che cosa devono capirne Germania e Uganda?

Sudafrica, Italia e Sei Nazioni: punti fermi per una discussione sensata

ph. Fotosportit/FIR

L’Italia infila i ko consecutivi numero 23 e 24 al Sei Nazioni e subito riparte (Inghilterra in prima fila) la rumba sulla nostra presenza nel torneo. In più il Daily Mail pubblica un articolo in cui si parla di trattative avanzate per un arrivo del Sudafrica dopo la RWC del 2023. E il peso tecnico, sportivo, economico e politico degli Springboks non è certo quello di georgiani e romeni, finora indicati come nostre possibili alternative.
Il Sudafrica sarebbe una aggiunta o andrebbe a sostituire qualcuno? E quello che eventualmente varrebbe per il 2024 avrebbe un valore anche l’anno successivo quando l’attuale accordo in essere (e che prevede la nostra presenza) va a decadere?
Non si sa, non si capisce bene. I nostri risultati non aiutano e alimentano la discussione. Che però va fatta attorno a qualche punto fermo, senza il quale si cade nel “vale tutto”. Eccone alcuni:

  • L’Italia deve rimanere nel Sei Nazioni, lo speriamo tutti, è una tale ovvietà che davvero non andrebbe nemmeno sottolineata. Uscirne sarebbe una sconfitta. Chiaro: se mai succedesse i principali responsabili saremmo noi. Non saremmo quindi vittime di un qualche complotto di chi ci vuole male.
  • L’Italia non può sperare di rimanere nel Sei Nazioni perché “Roma è bella e per francesi/gallesi/irlandesi/inglesi/scozzesi andarci a febbraio-marzo è una figata”. Perché, per quanto farsi un fine settimana nella nostra capitale è cosa che piace a a tutti, vuol dire scavarsi la fossa della mediocrità da soli. Una roba di una stupidità infinita. Eppure questa cosa viene spesso citata come la nostra arma principale per la permanenza nel torneo. Tristezza.
  • Servono i risultati del campo, che non significa necessariamente vincere (che però è meglio) ma essere competitivi. Realmente competitivi. Riuscire a portare gli avversari a match punto a punto fino al minuto 80 e oltre. Con questa cosa le discussioni su “Sei Nazioni sì e Sei Nazioni no” spariscono immediatamente.
  • A oggi parlare di una nostra fuoriuscita dal Sei Nazioni è una boutade o poco più, perché nonostante i nostri risultati le alternative sono peggio. Ancora meglio: le alternative non ci sono proprio, Georgia e Romania allo stato attuale non lo sono. Possono essere usate a livello mediatico, ma la cosa finisce lì. Chiaro che se invece delle due nazionali dell’Europa orientale si dovesse parlare di Sudafrica il discorso cambierebbe di parecchio.
    Lo so, sostenere che stiamo nel salotto buono perché quelli che bussano alla porta stanno messi peggio di noi non è il massimo, ma cerchiamo di essere intellettualmente onesti.
  • Il Sei Nazioni è un torneo privato: quindi sì, il merito sportivo deve contare e conta, ma inevitabilmente non è l’unico aspetto della vicenda.
  • Il nostro contratto scade nel 2024.
  • Per motivi economici, logistici e organizzativi un Sudafrica dentro al Sei Nazioni è cosa che ha fondamento.
  • Un Sudafrica dentro il Sei Nazioni sarebbe uno scossone istituzionale tosto. Il freno più grosso possono essere proprio gli equilibri politici che inevitabilmente verrebbero modificati. La Nuova Zelanda e l’Australia, ad esempio, come la prenderebbero? E World Rugby? Come cambierebbe (nuovamente) il calendario internazionale, modificato da poco dopo un compromesso che non è stato semplice da raggiungere?