Il Coronavirus, ovvero come il Covid 19 mise allo scoperto le chiappe del rugby italiano

Walter White, protagonista di “Breaking Bad”

Una emergenza non preventivabile che fa i raggi X a un movimento che per troppi anni si è guardato l’ombelico, federazione e club. Poi, improvvisamente, arriva la realtà. 

“October surprise” è la definizione con cui negli Stati Uniti viene indicato l’evento o il fatto di cronaca inatteso che nell’anno delle elezioni presidenziali (quindi come questo 2020) scompagina le carte in tavola e che può cambiare il corso delle cose, ribaltando posizioni che si erano consolidate nei mesi precedenti. Tipo la diffusione delle mail private di Hillary Clinton, rese pubbliche qualche settimana prima del voto nel 2016 e che secondo molti analisti punirono la candidata democratica in alcuni stati chiave, rendendo inutile la sua vittoria nel voto popolare. Una roba così. 
A volte questi fatti imprevedibili e inaspettati arrivano un po’ prima, come avvenne per l’uragano Katrina, ma insomma, ci siamo capiti.
Il Coronavirus ha letteralmente fermato il mondo e lo sport non è rimasto immune, è anzi forse uno degli ambiti che più hanno reso plastica la serrata – il lockdown – in cui ci troviamo a vivere da qualche settimana praticamente ad ogni latitudine. Fermati i campionati di calcio, le coppe europee, gare di F1 e motomondiale rinviate e/o cancellate, Wimbledon e Roland Garros hanno tirato giù la serranda, Olimpiadi rimandate di un anno e chi più ne ha più ne metta. 

Il rugby non è da meno e il suo calendario da qui ai prossimi mesi è stato congelato o annullato. Saltate le ultime giornate del Sei Nazioni, stagione finita in Francia e Inghilterra, tour di giugno in fortissimo dubbio.
E l’Italia? La federazione la scorsa settimana ha diffuso questo comunicato:
“Il Consiglio Federale della FIR si è riunito in video-conferenza giovedì 26 marzo per definire le azioni da adottare a fronte della pandemia da Covid-19 attualmente in atto, dopo aver temporaneamente sospeso sino al 3 aprile ogni forma di attività agonistica. L’organo di governo del rugby italiano ha deliberato la sospensione definitiva della stagione 2019/2020. La decisione del Consiglio determina la mancata assegnazione dei titoli di Campione d’Italia previsti dai regolamenti e, al tempo stesso, di tutti i processi di promozione e retrocessione”.
E fin qui nulla da eccepire.
Anzi, qualcuno ha criticato la decisione sostenendo che fosse prematura, che il campionato si potrebbe finire giocando a giungo e luglio, magari soltanto i play-off scudetto. A mugugnare sono stati club della parte alta della classifica, quelli che ai play-off ci possono arrivare, quelli che sperano/pensano di poter vincere il torneo. Le cronache ci raccontano di brontolii più o meno forti che arrivano dalle parti del Valorugby Reggio Emilia, da Calvisano, dalle Fiamme Oro. Molto più sfumate e attendiste invece le posizioni di Petrarca e Viadana.
Poi c’è il caso Rovigo: il presidente Zambelli ha usato parole dure contro la decisione federale, però va detto che è stato l’unico a farlo apertamente e a metterci la faccia. Certo, quello che ha detto è molto impopolare e – parere personale – pure sbagliato, ma almeno non si è nascosto.

Zambelli si è preso gli sberleffi di grandissima parte del mondo ovale, e un po’ se l’è andata a cercare. Il suo errore è stato quello di guardare il suo orticello, come se quello che sta succedendo attorno fosse un dettaglio secondario. A Milano diremmo che è stato un po’ pirla – bonariamente, s’intende – però è anche vero che non possono nemmeno essere le società a dover pensare e a risolvere situazioni di questo tipo. Non lo fanno i club del calcio che muovono decine, in alcuni casi centinaia di milioni di euro, a maggior ragione non è compito di presidenti che fanno una fatica enorme a tenere in piedi realtà da un paio di milioni (quando sono particolarmente ricche) e per le quali i soldi della federazione sono una colonna portante, in alcuni casi l’unica o quasi, per continuare a sopravvivere.

Perché il coronavirus ha portato alla luce in maniera evidente e non più equivocabile i mali del rugby italiano. Mali che nascono dalla gestione della FIR del movimento, da scelte che nel corso degli anni hanno portati risultati molto lontani da quelli attesi (quando quelle scelte non erano proprio del tutto sbagliate) ma che non sono mai state davvero messe in discussione da chi si trovava poi a vivere con quelle decisioni: le società. 
I club hanno sempre accettato di buon grado le briciole che arrivavano da mamma FIR, pochi finanziamenti che a loro sono bastati per tirare avanti senza rendersi conto (?) di essere finiti in un meccanismo di perenne compromesso al ribasso che ha portato il nostro campionato nazionale ad essere quello che è: poco seguito, con un richiamo mediatico nullo e incapace nel suo complesso di svolgere il compito tecnico che gli compete e che tante volte è stato sbandierato dal presidente Gavazzi: ovvero quello di essere la palestra dei nostri giocatori e – aggiungo io – dei nostri tecnici, dei nostri dirigenti e dei nostri arbitri.
La colpa è sicuramente della FIR ma anche di chi non ha mai protestato, di chi non ha mai portato in fondo battaglie che lo riguardavano da vicinissimo, di chi si è lamentato per poi sostenere lo status quo con il suo voto, di chi non ha saputo alzare gli occhi dal proprio giardinetto e capire che perdere un briciolo di autonomia per dare vita a una Lega dei Club sarebbe stato vitale. E invece nisba. Con toni e sfumature diverse da squadra  asquadra, va da sé, ma ci siamo capiti.

Il dividi et impera è servito alla FIR per imporre senza colpo ferire qualsiasi sua decisione presa per sostenere l’Alto Livello (sì, è vero che è l’unico che porta reddito ma lo scopo della federazione è quello di sostenere il gioco e lo sviluppo della disciplina, non solo la nazionale e poco altro) ma è stato sfruttato da ogni società per ottenere accordi e favori che, vista l’ambito angusto e limitato del proprio panorama, non potevano che essere limitati e angusti. Ne ha approfittato negli ultimi anni anche la Benetton Treviso, questa cosa va detta: il club veneto è riuscito a imporre alcune sue scelte/libertà assolutamente condivisibili ma alla fine il famoso “dialogo” (davvero esiste?) tra i biancoverdi e la federazione sembra più un patto di non belligeranza, una sorta di “non rompermi le scatole su quello che faccio e io non le rompo a te”. La prassi ormai instaurata sulla gestione dei permit players in totale assenza di normativa condivisa è solo un esempio.
Chiaramente il Benetton è l’unica società che ha la forza di imporre questa cosa e non ne ha mai fatto una sorta di punto di svolta che potesse fare da richiamo a tutto il movimento. Non era obbligato a farlo, s’intende, ma alla fine anche a Treviso si sono accontentati. Peccato.

Il coronavirus è stata un “October surprise” anche per la FIR. Non so se avrà un qualche effetto sulle prossime elezioni presidenziali, ma non è questo il punto. Il fatto che l’emergenza pandemia, con tutto quello che si è portata dietro, ha messo in mostra quello che tutti sappiamo, che il re è nudo e che le sue terga non sono un grande spettacolo. 
Perché la federazione era da anni abituata a gestire l’ordinario in mezzo a mille difficoltà economiche, ora si trova a gestire uno straordinario con quelle stesse forze. Insufficienti. Certo, all’orizzonte ci sono i famosi capitali CVC che però sono pronto a scommettere che a Roma volessero usare diversamente.
La FIR non sembra avere la forza economica e l’autorità politica necessaria per gestire un momento così complicato. Parlo dell’autorità e della credibilità che ti costruisci giorno dopo giorno negli anni, non di quella data da uno statuto. Parlo di autorevolezza. 
Il primo aprile si è tenuto un altro Consiglio Federale, cosa si è deciso? Questo il comunicato ufficiale: 
Il Consiglio ha definito di aggiornarsi a venerdì per definire una data utile all’approvazione del Bilancio Preventivo 2020, per il quale si è reso necessario un processo di opportuna revisione a fronte del momento storico attuale.
Il Consiglio ha, in prima istanza, ribadito l’impegno a garantire per la Stagione Sportiva 2019/20 gli stessi stanziamenti complessivi di natura contributiva già definiti nei confronti delle Società affiliate, secondo i criteri adottati per tutti i campionati per la Stagione 2018/19.
Al tempo stesso, il Consiglio ha confermato gli stanziamenti a supporto delle Società del Peroni TOP12 così come originariamente definiti per l’esercizio corrente. 
Contestualmente il Consiglio raccomanda alle Società il pieno rispetto, quale tutela per i giocatori, degli accordi contrattuali con i tesserati per l’intera stagione corrente. 
Contributi straordinari destinati al movimento saranno oggetto di successiva determinazione sulla base delle risorse e, comunque, nel rispetto della sostenibilità del Bilancio 2020“.

Traduciamo: quanto era già stato pattuito viene confermato, quei soldi li avrete, per gli extra bisogna vedere il Bilancio Preventivo che però va rivisto perché saltare le ultime due gare del Sei Nazioni per noi è stata una botta, è poi saltato il prevedibile sold-out con l’Inghilterra e dobbiamo ridare i soldi dei biglietti, un vero casino e io non ho molto idea di come uscirne perché i soldi sono quelli che sono.
Tutto rimandato perciò al Bilancio Preventivo 2020 con la premessa che ogni decisione sarà presa nel “rispetto della sua sostenibilità”. Ora, tralasciando il punto della situazione attuale (io sinceramente mi sono perso da un po’) su quali siano i Bilanci Preventivi e Consuntivi approvati dal Consiglio Federale ma sotto revisione del CONI, quelli che hanno ricevuto il via libera di sui sopra con mesi mesi e mesi di ritardo su quanto prevedono le norme e quelli approvati ma ancora non pubblicati, mi pare chiaro che la politica FIR sia in questo momento quella di prendere tempo. Non l’accuso di nulla, se non di aver fatto le cose a dovere prima, perché è chiaro che ora non può che fare così. Oppure no, potrebbe mettere sul banco un tot di soldi specificando che li toglierà all’Alto Livello, ma non succederà. Perché siamo da anni entrati in un circolo vizioso e questo è il risultato.

Sto andando lunghissimo, ma ora chiudo. Prima parlavo di mancanza di autorevolezza politica. Un esempio: il presidente della Federazione francese Bernard Laporte subito dopo la decisione della FFR ha scritto di suo pugno una lettera ai club francesi in cui si annunciavano due cose: misure straordinarie di sostegno a partire da quel momento a tutta la stagione successiva (ovvero fino a giugno 2021) e l’immediata messa a disposizione di 35 milioni di euro per aiutare 1900 società di ogni livello. Trovate tutto sul sito ufficiale della federazione transalpina.
Ora, è chiaro che in tutta Ovalia solo Francia e Inghilterra possono attingere a quella quantità di risorse, non sto certo paragonando questo aspetto.
Però va detto che oggi la FIR avrebbe difficoltà a promettere 500mila euro, cifra che probabilmente non basterebbe affatto. Va detto che la FIR non ha avuto quella prontezza e quella velocità di decisione neanche per mettere sul tavolo 200mila euro come prima risposta all’emergenza. Va detto che Laporte ci ha messo la faccia mentre sono un po’ di mesi che il numero uno del nostro rugby è uscito dai radar. Va detto che rappresentanti di alcuni club di Top 12 hanno riferito a questo blog di una certa insistenza federale nel cercare un appoggio da parte delle società su decisioni ancora tutte de venire: intendiamoci, federazione e società devono parlarsi ma il Top 12 è un torneo di proprietà della FIR e l’onore e l’onere di certe scelte sono tutte in capo alla federazione. Cercare un appoggio quasi aprioristico con la controparte, in assenza di misure concrete, dà l’impressione di un volersi tutelare con una sorta di chiamata in correo. Una specie di “eh ma ci avevate detto che stavate con noi”. Non credo debba funzionare così.

Il Sei Nazioni, il Pro14 e la CVC: una montagna di soldi e una domanda che bisogna farsi

Vantaggi, opportunità, nuovi scenari: l’ingresso del gruppo di private equity nel gotha della palla ovale europea mette il rugby in una condizione tutta nuova, e sposta il confine. Ed  espone anche a rischi culturali mai affrontati prima. 

Se ne parla da tempo, si attendono solo comunicati ufficiali con le cifre definitive. Arriveranno. Parlo di CVC Capital Partners e del suo “ingresso” nel board del Sei Nazioni e del Pro 14. Ieri Duccio Fumero su R1823 ha prefigurato una (verosimile) ripartizione economica di quei soldi. E sono numeri pesanti, visto che per la FIR si parla di circa 45 milioni euro netti.
Una vicenda destinata a cambiare non poco il rugby europeo. Le opinioni sono in larga parte favorevoli, vista l’abbondante immissione di liquidità fresca nelle casse di tutte le federazioni coinvolte. Al momento però nessuno sembra porre l’accento su un aspetto che sul medio-lungo periodo avrà un peso non indifferente, nessuno sembra porsi la domanda più importante: quali sono gli obiettivi di CVC?

La risposta è semplice e complicata allo stesso tempo. E’ facile perché un gruppo di private equity cerca una sola cosa: il profitto. CVC ha capacità di investimento per oltre un centinaio di miliardi di euro e interessi nei settori più svariati. CVC vuole fare i soldi, sono bravi a farli e se guadagnerà anche nel rugby significa che anche i suoi partner lo faranno, FIR compresa. La domanda è però: a che prezzo? Perché una volta che tu vendi una cosa poi non ce l’hai più. Le quote vendute dalla federazioni sono ora fuori dal loro controllo.
Può sembrare un gioco di parole, ma non lo è. E’ il vero nocciolo della questione. CVC non è una entità rugbistica, non è un qualcosa che nasce all’interno del mondo ovale o che ne condivide lo spirito, qualsiasi cosa possa significare. E’ una macchina da soldi, e resterà in quel mondo fino a quando sarà economicamente fruttuoso. Cercherà profitti in ogni modo. CVC si siede al tavolo con una serie di entità che pur con le loro innegabili differenze provengono tutte dallo stesso humus, che condividono una visione, un sentire. CVC invece è un alieno.

E’ una compagnia che spingerà l’acceleratore verso confini e limiti che le federazioni non avrebbero mai immaginato. O che comunque non lo hanno fatto finora. E’ una opportunità, indubbiamente, è una sfida. E’ un rischio, non so quanto calcolato da parte delle varie federazione. Una spinta iper-capitalistica, se volete passarmi il termine, potrebbe lasciare strascichi non indifferenti anche sulla federazione inglese e a cascata sul suo movimento, ma Londra è tra tutte quella che potrebbe incassare meglio gli eventuali (inevitabili?) contraccolpi. Le altre?
Intendiamoci, ci sono innegabili vantaggi e possibilità che si aprono. Il rugby è però una disciplina fortemente identitaria e ora in uno dei suoi sancta sanctorum, forse quello più importante, entra un qualcosa di totalmente avulso da quella che è la sua cultura e che potrebbe sia esaltarlo che annichilirlo. Toh, annichilirlo magari no, ma cambiarne radicalmente l’anima sì. Qualche domanda bisogna farsela e la più importante è: quanto ed eventualmente cosa siamo disposti a perdere per diventare più ricchi?

L’italica capacità di fare spallucce e il Paradigma Uganda (e Germania)

Ce la si potrebbe cavare dicendo che tutto sommato l’Uganda al Mondiale 2018 era presente e l’Italia no, però fare spallucce serve a poco. Al massimo a mettere la polvere sotto i tappeto, cosa che dicono non serva un granché a risolvere i problemi. Dicono.
Io di rugby a 7 capisco poco o nulla, ma non bisogna essere esattamente dei geni per rendersi conto che è un codice capace di diventare un veicolo importante per qualsiasi movimento e che la preparazione tecnico/tattica/atletica del Seven può riversarsi in maniera positiva nel rugby a 15. E poi è uno sport olimpico, dovrebbe bastare questo a smuovere le acque. Invece.

Invece l’Italia va in Cile, a Vina del Mar, e nella prima giornata delle World Rugby Challenger Series – un torneo nuovo di zecca che assieme alla tappa di settimana prossima a Montevideo (Uruguay) “regala” otto pass per le World Series di Hong Kong – rimedia una sola vittoria e due sconfitte. Il Paraguay lo abbiamo battuto, Uganda e Germania ci superano. Uganda e Germania.Ripetiamolo: Uganda e Germania. Nella seconda giornata rimaniamo a zero contro l’Uruguay, ma va detto che la partita è viziata da due cartellini, di cui uno rosso inesistente.
Come dicevo, io di rugby a 7 capisco poco o nulla, ma due cose so metterle in fila. Tipo che è vero che in quel particolare codice alcune nazionali hanno trovato spazi di crescita e successi a loro preclusi nel rugby a 15, come le Fiji o gli Stati Uniti o il più sorprendente Kenya (che poi: farlo pure noi pare brutto?), ma Uganda e Germania rimangono movimenti ampiamente minori e minoritari. Non voglio mancare loro di rispetto, ci mancherebbe, ma per pareggiare i soldi che noi riceviamo ogni 12 mesi in virtù del nostro status privilegiato quei due dovrebbero mettere assieme le loro risorse di diversi anni. Parecchi anni. Eppure.

Mi si dirà che i soldi non sono tutto, ed è vero. Infatti servono anche idee, progetti, programmazione. Pure un po’ di culo – passatemi il francesismo – ma solo con quello non si va da nessuna parte.
Noi i soldi in linea teorica li abbiamo. Il CONI ogni anno versa alla FIR un tot di milioni perché il rugby è uno sport olimpico ma effettivamente quanta parte di quelle risorse vengono investite nel Seven? Chissà se il CONI chiederà mai conto di quei finanziamenti…
Il resto invece latita, parlo ovviamente delle idee, dei progetti e della programmazione. Al piccolo gruppo che segue il rugby a 7 non si può imputare nulla: Orazio Arancio, Andy Vilk e compagni di (dis)avventura ci mettono tutto l’impegno e l’entusiasmo del mondo. Ma dire che predicano nel deserto è limitativo.

La litania la conosciamo tutti a memoria: non abbiamo un campionato dedicato, i club non fanno i salti di gioia (eufemismo) quando un loro giocatore viene convocato per il Seven, non abbiamo di conseguenza atleti “dedicati” e quando la cosa sembrava in dirittura d’arrivo – ricordate la famosa accademia che sarebbe dovuta sorgere presso le Fiamme Oro? – è stata fatta sparire dal tavolo senza che nessuno cercasse di spiegare un perché che avesse un minimo di senso.
Però a quanto pare va bene così. Forse la gestione di questi anni del rugby a 7 è stata quella giusta, e sono gli altri che non hanno capito nulla. Tutti gli altri. Perché se prendiamo la classifica finale del Mondiale 2018 giocato a San Francisco ci accorgiamo che i nostri principali partner/avversari c’erano tutti e il più attardato era il Galles con un 11° posto che noi avremmo fatto passare per un mezzo trionfo per diversi anni a venire.
Ma sì, sarà così, che cosa devono capirne Germania e Uganda?

Elezioni FIR: Giovanni Poggiali e Pronti al Cambiamento scendono in campo

Il Sei Nazioni è alle porte ma iniziano a muoversi le carte anche sul tavolo che ci porterà alle elezioni federali di fine anno (più o meno).
Marzio Innocenti ha annunciato da tempo – ma non ufficializzato – la sua candidatura, il presidente uscente Alfredo Gavazzi non ha ancora sciolto la riserva. Nel fine settimana a ufficializzare la sua discesa in campo è stato Giovanni Poggiali, appoggiato da Pronti al Cambiamento.
Duccio Fumero di R1823 lo ha intervistato. Eccone uno stralcio

(…) sino a ora tutte le ricette proposte negli anni puntavano quasi esclusivamente o sull’alto livello o sulla base, come se le due entità fossero in contrapposizione tra loro, come se non si possa costruire un rugby di base se vi è un’élite ovale, o non si può puntare sull’alto livello se ci si concentra sul basso. È veramente impossibile lavorare a 360°?
Si deve lavorare a 360°, non si può pensare diversamente. È ciò che fanno tutte le Union, dobbiamo farlo anche noi. Ma, come dicevo prima, dobbiamo ricordare la storia del rugby nel nostro Paese, bisogna assolutamente trovare un modello italiano, guardando alle esperienze all’estero, ma consci che in Italia va trovata una soluzione ad hoc, senza scimmiottare gli altri. Voglio aggiungere una cosa: spesso si dice ‘’ah ci vuole un imprenditore’’, per me l’imprenditorialità è importante, l’esperienza fondamentale, così come la capacità organizzativa, e la capacità di comprendere i bisogni e di dare le giuste risposte; tutte queste competenze possono essere applicate al sistema federale, ricordando però che una Federazione non è una impresa in senso stretto, ma ha dinamiche e peculiarità proprie;

LEGGI SU R1823 L’INTERVISTA COMPLETA A GIOVANNI POGGIALI: CLICCA QUI

Road map di un addio e ct che sono falsi problemi: il nostro 2020 inizia così

ph. Fotosportit/FIR

Lo scorso marzo, prima della partita con la Francia al Sei Nazioni, aveva detto che “ci sono grandi chances che questa possa essere la mia ultima partita in Nazionale”. Il sottinteso era: Mondiale escluso. Poi a metà ottobre a Midi Olympique aveva tenuto a precisare che “ho letto ovunque che la mia carriera internazionale è finita, ma è sbagliato. Il mio finale con l’Italia è ancora da scrivere. Non sarà un tifone a chiudere la mia avventura con la nazionale”.
Ora c’è la versione lasciata al Corriere dello Sport andato in edicola ieri, dove Sergio Parisse spiega di avere “esposto a Smith il mio desiderio di chiudere la carriera internazionale a Roma davanti alla mia famiglia, ai miei amici e ai nostri tifosi. Lui è d’accordo sul fatto che merito un’altra partita, che non posso finire con quell’incontro cancellato dal tifone. Affronterò la Scozia, l’Inghilterra o tutte e due, ma non giocherò di sicuro l’intero Sei Nazioni”.
Sgombriamo il campo dagli equivoci: non sto canzonando quello che con ogni probabilità è il nostro giocatore più forte di sempre perché un uomo ha diritto di cambiare idea, tanto più se si parla di un atleta giunto al fine carriera di una disciplina fisicamente stressante come poche altre.
Il terza linea sembra aver preso la decisione definitiva, quella che tra l’altro mi sembra – per quello che vale, cioè nulla o quasi – la più sensata e corretta. I motivi che in questi mesi lo hanno spinto a mutare opinione riguardano solo lui. Provo a mettermi nei suoi panni: prendere una decisione simile non è per nulla semplice.

Trovavo giusto iniziare il 2020 su queste pagine con Sergio Parisse, giocatore enorme che però per ragioni anagrafiche non può che rappresentare il passato della nostra nazionale. Con lui in queste settimane lasceranno anche i senatori Zanni e Ghiraldini, chi prima chi dopo, e inizialmente il deficit di esperienza e carattere azzurro non potrà che aumentare. Quanto ci metteremo a colmarlo non lo sappiamo.
L’Italia inizia un nuovo ciclo? Non è facile dirlo. In teoria dovrebbe essere così, in realtà le novità non saranno tantissime e soprattutto nel complesso il gruppo ha meno qualità dell’infornata che portò i vari Ongaro, Masi, Castrogiovanni e gli stessi Parisse e Ghiraldini. Cambiamenti ne vedremo con il passare dei mesi, ma non aspettiamoci rivoluzioni in tempi brevi.

Una faccia nuova è sicuramente quella di Franco Smith. Nuova per la nazionale, non per il nostro rugby. Chiamato per entrare nello staff di O’Shea ne ha preso il posto dopo l’addio dell’irlandese (a proposito di cambiamenti di idea, l’ex ct a metà ottobre ancora diceva che “se la federazione mi vuole ci sarò anche al Sei Nazioni”. Chissà cosa è cambiato nel frattempo) almeno fino al termine del torneo che scatta tra poche settimane, poi si vedrà.
E nelle ultime settimane è tutto un “chissà chi sarà il prossimo allenatore azzurro”, come se la questione fosse poi così dirimente. Certo, avere un tecnico preparato è importante, ma non è che negli ultimi anni dalle nostre parti siano passati esattamente degli sprovveduti o degli scappati di casa.

E allora forse il problema sta nel manico, non nel terminale più in vista, ovvero la nazionale.
La questione – ad esempio – non è che non abbiamo mai avuto un ct italiano nelle ultime due decadi, cosa che puntualmente viene detto ad ogni cambio di panchina, ma che nello stesso periodo non abbiamo “costruito” nessun allenatore italiano che sia davvero credibile per quel ruolo. Non ci abbiamo proprio provato.
Se non risolviamo tutte le storture del movimento (produzione di giocatori, produzione di tecnici, produzione di dirigenti, produzione di arbitri, un torneo nazionale davvero performante, una corretta trafila di crescita per gli atleti, una sensata organizzazione tra accademie/campionato/franchigie. E sicuramente mi dimentico qualcosa) a guidare la nazionale potrebbe esserci uno staff composto da Eddie Jones, Warren Gatland e Steve Hansen, ma le cose non cambierebbero un granché.
Intanto per non sbagliarci il primo raduno della nazionale post Mondiale si svolgerà in un posto a caso, Calvisano. Alè.