Infortuni, timori, pressioni da parte di club e nazionali: quello che i giocatori dicono

Un documento con una serie di domande a 350 atleti di 24 nazionali diverse, tutti anonimi: è lo studio-sondaggio messo in piedi dall’International Rugby Players Association per tastare il terreno circa alcuni aspetti di cui spesso si parla senza però che l’opinione dei diretti interessati sia poi così messa in risalto.

I giocatori coinvolti appartengono alle 20 nazionali che andranno alla RWC nipponica del prossimo settembre con l’aggiunta di Germania, Kenya, Hong Kong e Romania. Il 55% degli intervistati (nei mesi di ottobre e novembre) ha tra i 24 e i 29 anni, il 21% tra i 18 e i 23, il 24% dai 30 anni in su.
Queste le note metodologiche, ma i contenuti? Si parla di infortuni, di quantità di partite giocate, di preoccupazione per il trattamento (e il futuro) economico, di pressioni per giocare o meno in nazionale, di carichi di lavoro negli allenamenti. OnRugby, a quanto mi risulta l’unico media ovale italiano ad averne finora parlato, rileva come “molti risultati mettono in luce alcune rilevanti differenze tra i giocatori delle nazionali Tier 1, Tier 2 (Canada, USA, Fiji, Tonga, Samoa, Giappone, Georgia, Romania e Russia) e le Emerging Nations (ovvero Germany, Hong Kong, Kenya, Namibia e Uruguay)”.

Un paio le parti – a mio modestissimo parere – più interessanti. La prima quella che riguarda il contatto, nella quale i giocatori si dicono propensi a una limitazione di placcaggi e scontri nelle sessioni di allenamento, siano esse con nei club di appartenenza o delle nazionali. Una risposta di un atleta intervistato non lascia spazio a dubbi: “Contact at training whether in club or international set up needs to be limited. There is enough contact week to week in games so I don’t see why there is any in training. Players need to be protected from under pressure coaching staff”. Non credo serva traduzione.

La seconda è quella della sezione “Availability”. OnRugby lo ha scritto in maniera semplicissima e molto chiara, ecco lo stralcio:
Il 23% dei giocatori ha ammesso di aver subito pressioni dal club per non giocare per la propria nazione. Il 40% di questi ha poi effettivamente deciso di non aggregarsi alla nazionale, accettando le richieste della propria società. Un altro dato significativo è la differenza di opinione in merito tra i giocatori Tier 1 e Tier 2: nella prima categoria, solo il 7% degli atleti considera tutto questo come un reale problema, mentre nella seconda categoria il 37% lo reputa un tema importante”.
In un clima di professionismo sempre più spinto, con le società dei due più importanti e ambiti campionati di tutta Ovalia (Inghilterra e Francia) che aumentano sempre più il loro investimento economico va da sé che ci troviamo di fronte al tema più importante del futuro di questo sport assieme a quello della salute degli atleti.

Altri dati sparsi: il 45% dei giocatori ha ammesso di aver subito pressioni dagli staff tecnici dei propri club per allenarsi o giocare anche a fronte di non perfette condizioni fisiche, una percentuale che non vede differenze tra nazionali di Tier 1 e 2 ma che cresce di parecchio per le Emerging Nations.
Secondo i giocatori bisognerebbe giocare non più di 25 match a stagione ma ben il 65% degli intervistati scende in campo fino a 30 e anche più gare, per il 54% degli atleti coinvolti non dovrebbero essere giocati test-match al di fuori delle finestre internazionali previste da World Rugby.
Infine: la prima preoccupazione dei giocatori riguarda il rischio di infortuni (21%), seguito (al 18%) dagli aspetti economici. Due argomenti che – a ben vedere – sono strettamente legati tra loro. Curiosità: al terzo posto (16%) a mettere stress agli atleti sono la video analisi e lo studio delle tattiche. Aspetto noioso o semplicemente difficile?

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25 aprile: una piccola storia di rugby, partigiani e Resistenza

Oggi si celebra la giornata della Liberazione dal nazifascismo. Girovagando in rete mi sono imbattuto nella storia di Bruno Paiardi, bresciano che partecipò alla Resistenza con il nome di battaglia di “Faro” e che prima della guerra aveva incrociato la palla ovale.
La sua videotestimonianza ci racconta anche di quale fosse l’ambiente rugbistico di quegli anni e della vicenda di Nadir Gambetti, un altro partigiano rugbista che però venne fucilato.
Buona Liberazione a tutti

Il Beach Rugby? Lo trovate anche a Cologno Monzese (sì, proprio il beach rugby vero!)

RSF

Oggi accendo la luce un piccolo/grande evento ovale. D’estate siamo ormai abituati a vedere tornei, festival, chi-più-ne-ha-più-ne-metta e da quest’anno ce n’è uno in più. E siccome succede alle porte della mia città – Milano – ve ne parlo: dal 22 al 25 giugno si tiene la prima edizione del Rugby Summer Festival, una “kermesse sportiva e musicale che si terrà in un’area verde, completamente recintata, di circa 40.000 mq, messa a disposizione dall’Iride Cologno Rugby e dal Comune stesso”. Così sul sito ufficiale dell’evento.

Tantissimi gli appuntamenti, ma a svettare sono il torneo di touch rugby e – soprattutto – una tappa del Campionato Italiano di Beach Rugby: ci sarà la sabbia e tutto il resto, ecco, magari non il mare, ma il divertimento è assicurato. Avete bambini? Nema Problema, ci sono corsi, animazione, laboratori e attività dedicate. E poi ogni sera musica e concerti per tutti i gusti.
​Da sottolineare che i tornei di Beach e Touch sostengono una onlus brasiliana che in 26 anni ha tolto dalla strada 27.000 bambini e che è presente anche in Italia (Progetto Axè Italia Onlus) con la sua attività di formazione dal 2004 e attiva nel limitare la dispersione scolastica.

A questo link tutte le info

Rugby di base: gli Stati Generali dal basso? In Inghilterra hanno fatto qualcosa di simile


Due questionari, una ricerca, 28mila risposte da parte di dirigenti, ex giocatori, arbitri e genitori per capire cosa va w cosa non va nel movimento che non finisce sotto i riflettori dei media. E per intervenire.

Come migliorare il proprio movimento? Come cercare di avvicinare sempre più persone alla palla ovale? Ancora meglio: come cercare di ottenere queste cose in Inghilterra, ovvero del paese che il rugby lo ha inventato e che può contare su un paio di milioni di individui coinvolti? Domande legittime, domande che in realtà si fanno tutte le federazioni per quanto riguarda il proprio bacino, ma lassù nelle terre d’oltremanica cercano a chi di dare risposte. Risposte vere, dal basso, non da un qualche “alto” che seppur legittimato da una qualche elezione decide di interpretare la realtà che lo circonda.
La RFU – abbiamo letto su OnRugby qualche giorno fa – ha messo in piedi un paio di ricerche con le quali ha intervistato 28mila persone: la National Rugby Survey e la Age Grade Player Surveys, attraverso le quali ha fatto uno screening sullo stato dell’arte. A rispondere sono stati soprattutto dirigenti di club, ma anche ex giocatori, arbitri e genitori di bambini che frequentano il mini rugby.
Diversi i punti emersi: una costante crescita del numero di giovani che si avvicinano alla palla ovale (probabile effetto-traino delle campagne pre e post RWC2015), la difficoltà perle ragazze di trovare club vicini a dove vivono per poter giocare, un alto numero di abbandoni al termine del percorso scolastico sia esso liceale o universitario: l’ingresso nel mondo del lavoro spinge molti ad appendere gli scarpini al chiodo. Emerge dalle ricerche la richiesta da parte di chi già lavora di praticare il rugby in maniera continuativa ma in qualche modo svincolata dalle pratiche di tesseramento con un club e da quelle più burocratiche. Infine ad attirare giovani a giocare a rugby è lo spirito di squadra mentre vincere rimane un aspetto secondario. Il Rugby Development Director della Federazione, Steve Grainger, si è detto soddisfatto dei risultati e della partecipazione alla ricerca che “ha dimostrato quanto attaccamento e impegno vi siano nella base.Ci sono tante cose positive, ma no mancano criticità e aspetti in cui dobbiamo migliorare: ora le analizzeremo e agiremo“.

Non solo Romania e Georgia: la Spagna è la “next big thing”? Oggi no, ma con quei numeri…

Dalla pagina facebook dell’El Salvador Rugby

Qualche settimana fa l’EPCR ha annunciato che le finali delle coppe europee 2018 si terranno a Bilbao. Poi ci sono i 100mila del Camp Nou per Tolone-Racing92. Ma soprattutto c’è la localissima Copa del Rey, che un anno fa ha fatto un sold out da 25mila tifosi e che quest’anno, 10 giorni prima del kick-off, può già vantare 21mila tagliandi venduti. Alle nostre spalle la concorrenza è sempre più numerosa

La Spagna oggi occupa la posizione numero 18 del ranking mondiale, subito dopo gli Stati Uniti e prima di Namibia, Russia, Uruguay e Canada. Come è messa nel panorama internazionale? E’ sicuramente un movimento in crescita, anche se dargli una collocazione precisa non è facile: è meno “pronto” a un salto di qualità rispetto a quello romeno o georgiano? Sì, ma ha alle spalle una economia più forte, dinamica e un bacino potenziale di quasi 50 milioni di persone. Tutti argomenti che nel rugby professionistico di oggi hanno un gran peso.
E ha già dato dimostrazione di essere aperta alla palla ovale con i 100mila che hanno affollato il Camp Nou di Barcellona per la finale del Top 14 2015-2016, ma prima ancora ad andare sold out (56mila posti) era stato lo stadio Olimpico del Montjuic per una “normale” partita di regular season del massimo campionato francese, ovvero Perpignan-Tolone. Ok, è vero, si è sempre giocato in aree vicina alla ben più ovale Francia, dove le trasferte erano semplici (e piacevoli) però rimangono decine di migliaia di persone e il Camp Nou è gigantesco. Non è un caso che l’EPCR abbia designato la basca Bilbao quale sede delle finali di Champions e Challenge Cup del 2018, argomento già affrontato recentemente da queste parti.

E comunque non ci sono solo quegli exploit endogeni, diciamo così, ovvero dovuti al grande rugby straniero che fa a fare una gita al di là dei Pirenei. Il 17 aprile 2016 allo stadio José Zorrilla di Valladolid si è giocata la finale di Copa del Rey davanti a 26.512 spettatori paganti. Struttura esaurita in ogni settore e che vedeva sugli spalti anche la presenza di Felipe VI, re di Spagna. 26mila spettatori sono un quarto dei tifosi che il complessivo delle squadre della nostra Eccellenza riescono a richiamare nell’arco di una intera stagione. Anzi, probabilmente la proporzione è ancora maggiore. 26mila spettatori a volte non li richiama nemmeno la nostra nazionale. Tanto per dire: la recentissima finale del Trofeo Eccellenza – il corrispettivo italico della Copa del Rey – ha registrato un pubblico da 800 persone, dato ufficiale FIR.
Un exploit isolato? No. Perché le notizie che arrivano dalla Spagna in queste ore dicono che per la finale della Copa del Rey 2017, che si giocherà il 30 aprile ancora una volta allo stadio José Zorrilla sono già stati venduti 21mila tagliandi. Si va verso un altro sold-out. In campo come un anno fa l’El Salvador e poi il Santoboiana. Pare che stavolta il re non possa venire, ma chi lo sa.

Sono numeri che devono farci in qualche modo preoccupare? Difficile dirlo. A livello tecnico il nostro movimento è ancora di un altro livello, perché se è vero da un lato che nel 2012 il Rovigo a Guernica venne clamorosamente sconfitto in Challenge Cup, dall’altro le squadre spagnole in queste anni sono state regolarmente sconfitte dai nostri club, anche con risultati pesanti. A livello di nazionale maschile oggi non c’è gara ma già il discorso cambia per quanto riguarda le ragazze e nel seven. E nel rugby femminile Italia e Spagna sono inserite nello stesso girone al Mondiale del prossimo agosto mentre nel 2014 le iberiche in Francia c’erano per il torneo iridato, le azzurre no.
Poi c’è quello che succede fuori dal campo, e lì il gap a nostro vantaggio si riduce parecchio. Davvero non so quantificarlo, ma probabilmente non siamo poi molto lontani. Noi possiamo contare su una struttura che pur con tutte le sue magagne e criticità è più “formata” e professionale, a Madrid e Barcellona ne sono (ancora) sprovvisti ma quei 26mila paganti per una gara di club… beh, noi oggi non possiamo nemmeno sognarceli. Nemmeno per un singolo exploit.