Placcaggi alti e concussion nel Tinello di Vittorio Munari. Quella filosofia che World Rugby non fa…

E’ uno dei problemi più dibattuti in tutta Ovalia, il cuore del tema “salute degli atleti”. Ma forse è anche il cuore della domanda cruciale del rugby moderno: ovvero, cosa vogliamo che sia e cosa vogliamo che diventi questo sport?
Palla a Vittorio!

La ballata di Heathcote e Warburton: il blues triste del rugby moderno

Due storie diverse, eppure molto simili, finite sui giornali a poche ore di distanza l’una dall’altra. E che dovrebbero spingere il rugby a farsi qualche domanda

Sam Warburton, solo 30 anni da compiere il prossimo 5 ottobre, lascia il rugby giocato. Uno dei giocatori più forti e determinanti nel suo ruolo (e non solo) degli ultimi 10 anni appende gli scarpini al chiodo perché non ce l’ha fatta a recuperare da due infortuni che gli hanno fatto saltare interamente l’ultima stagione. Detta meglio: ha capito che non riuscirà a tornare ai livelli oggi richiesti dal rugby internazionale. I suoi 74 caps con il Galles, le sue 103 gare con i Cardiff Blues, la fascia da capitano con i British & Irish Lions che hanno costretto nell’estate di un anno fa gli All Blacks a pareggiare la serie con la prestigiosa selezione sono ora nel bagaglio dei ricordi di un ex giocatore.
Tom Heathcote è uno scozzese di Inverness. Ha 26 anni, mediano di apertura, ha giocato con le maglie di Edimburgo, Bath e Worcester Warriors. Ha vestito le maglie della nazionale scozzese A, per tre volte quella della nazionale maggiore del suo paese e – per non farsi mancare nulla – pure quella dell’U20 inglese. Un giocatore di buona qualità che oggi è senza contratto: una serie di infortuni alla testa hanno limitato il suo utilizzo nel corso degli ultimi anni e il campo da gioco nell’ultima stagione lo ha praticamente sempre visto da lontano.

Due storie che sembrano lontanissime ma che invece sono molti più vicine di quello che una prima e superficiale impressione può lasciare. Perché entrambe ci dicono tanto sul rugby di oggi, uno sport in cui l’aspetto fisico oggi è sempre più centrale sovraesposto. Che lo si faccia per motivi tecnici o di mero spettacolo poco conta, perché  alla lunga i risultati sono (anche) questi.
Qualche ora prima che Warburton annunciasse il suo ritiro il Daily Telegraph ha pubblicato un articolo in cui si parte proprio da Tom Heathcote per raccontarci le storie semisconosciute di tantissimi giocatori che vengono “persi” per via degli infortuni. No, perdonatemi, anche questa cosa si può dire meglio: dei giocatori che rimangono senza contratto per via degli infortuni, che non è la stessa cosa. Perché Warburton, se avesse voluto, avrebbe potuto prendersi altri sei mesi o un anno per cercare di recuperare dai suoi guai fisici. Heathcote e quelli come lui no.
Perché Heathcote è in realtà clinicamente abile e arruolato, può giocare: lo dicono i medici. In teoria. La pratica è che i club non si fidano e quindi un giocatore che magari non sarà un fenomeno ma che ha comunque non poche qualità a oggi non ha una squadra.
E gli Heathcote sono tanti: secondo il quotidiano britannico il 14% dei giocatori che erano nelle rose delle squadre che hanno preso parte all’ultima Premiership non avranno un contratto e non saranno al via tra qualche settimana nella nuova stagione.

Certo, ognuno ha la sua storia, e tutte hanno le loro caratteristiche uniche. Qualcuno dirà che queste cose succedevano anche prima del professionismo. Vero, però il 14% sono davvero tanti. Il fatto è che i club hanno la possibilità di “tagliare” un giocatore se questi supera un tetto di mesi di stop per infortuni. E il Telegraph cita la vicenda di Max Davies, un anno fa tra i protagonisti dell’Inghilterra U20 arrivata seconda ai Mondiali di categoria del 2017 e il suo club – i Falcons – già lo scorso aprile gli ha comunicato che sarebbe rimasto senza contratto,
La combinazione tra un gioco sempre più fisicamente brutale e le necessità dei club rischiano di creare un mix davvero pericoloso per il rugby. La RPA, l’associazione dei giocatori inglese, ha stimato che solo un quarto di quel 14% alla fine riuscirà ad ottenere un qualche contratto e chiede che il problema venga quantomeno affrontato.
Forse accostare Warburton e Heathcote (e i suoi “simili”) è arbitrario, non lo penso, ma capisco anche che qualcuno possa sostenerlo. Forse non sono due facce di uno stesso problema, ma sono comunque aspetti tra loro accostabili e che devono spingere federazioni e World Rugby a farsi qualche domanda.

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Il meccanismo All Blacks, le concussion, il professionismo e l’importanza dei club: parla Francois Pienaar

Ieri a Milano l’ex capitano degli Springboks campioni del mondo 1995 ha incontrato la stampa italiana. Duccio Fumero lo ha intervistato per R1823, ecco le sue parole.

François, oggi gli All Blacks sembrano invincibili. Cosa c’è dietro a una squadra simile?
Sono veramente incredibili, ma non è qualcosa che nasce per caso. Loro hanno una cultura rugbistica, una tradizione incredibile. Pensate ai loro ultimi allenatori, al passaggio che c’è stato da uno all’altro. Non vi è mai stata una ‘rivoluzione’, non hanno…

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Rugby e salute: infortuni e concussion in crescita, l’Inghilterra chiede l’intervento di World Rugby

Un rapporto sulla stagione 2016/2017 del rugby professionistico inglese conferma la luce rossa accesa già negli anni precedenti. Ci si infortuna tanto durante le gare e troppo negli allenamenti. La RFU chiede a World Rugby di cambiare l’altezza del placcaggio consentito dalle norme. E nell’occhio del ciclone ci finisce pure Eddie Jones

Oggi accendiamo i riflettori sulla salute dei giocatori, tema di cui non si parlerà mai abbastanza, e nello specifico su un report inglese riguardante la stagione 2016/2017 commissionato dalla RFU, dalla Premiership Rugby e dalla Rugby Players ‘Association (ah, che bello avere tutte queste istituzioni che nonostante le inevitabili frizioni lavorano comunque per un comune obiettivo. Chiusa la parentesi).
Il documento si chiama The Professional Rugby Injury Surveillance Project e, come ci dice il Times, la “revisione degli infortuni nel rugby professionistico in Inghilterra ha registrato un aumento delle concussions per il settimo anno consecutivo (…) ha riscontrato un allarmante aumento del numero e della gravità degli infortuni nelle partite e negli allenamenti”.
Poi un po’ di numeri, visto che gli infortuni sia nel corso delle gare che negli allenamenti hanno registrato dei tassi superiori a quelli considerati accettabili dagli estensori del report. Ancora il Times:C’è stata una media dell’ultima stagione di 3,8 infortuni per partita nella Aviva Premiership, con i giocatori esclusi per una media di 38 giorni. La commozione cerebrale è stata l’infortunio più segnalato, pari al 22%”.

Numeri preoccupanti che hanno spinto Simon Kemp, il responsabile medico della RFU, a chiedere l’intervento di World Rugby: l’organo che gestisce la palla ovale a livello mondiale dovrebbe – secondo le richieste del medico – cambiare l’altezza del placcaggio consentito dalle norme e al contempo applicare pene più severe per i placcaggi a testa alta: “Vorremmo che World Rugby prendesse in considerazione il pensiero di ridurre l’altezza legale del placcaggio da sotto la linea delle spalle, perché poiché il margine di errore è molto basso – si legge sul quotidiano inglese – abbiamo bisogno di un messaggio più chiaro su ciò che costituisce un approccio sicuro e non sicuro”.
Nel documento si parla di tassi di crescita tali per i quali usare parole come “inquietante” non è affatto sbagliato: il numero delle collisioni è cresciuto del 10% all’anno negli ultimi 4 anni e le previsioni per la stagione in corso parlano di una ulteriore crescita. Un numero elevatissimo di infortuni (il 36%) è stato registrato nel corso degli allenamenti e la tipologia più comune rimane sempre quella della concussion. Una curiosità, chiamiamola così: il report per la prima volta registra un numero più alto di infortuni su campi sintetici che non in quelli nella tradizionale erba. Che questo ultimo dato sia da spiegare con l’esplosione numerica di quel tipo di campi è cosa possibile ma non certa, bisognerà attendere i numeri dei prossimi anni. Da parte sua la RFU ha difeso il suo piano di progettazione e costruzione di campi artificiali e assieme al board della Premiership e dalla Rugby Players ‘Association ha presentato un memorandum in 8 punti (non svelati ancora alla stampa) per rispondere in maniera adeguata ai dati contenuti in questo The Professional Rugby Injury Surveillance Project.

Chiudo con un aspetto derivante dal rapporto che è stato sottolineato dal Guardian: “Le sedute di allenamento di Eddie Jones saranno probabilmente sottoposte a controllo (…) Jones conduce sessioni di allenamento notoriamente estenuanti e ha dichiarato in passato che quando i suoi giocatori si uniscono alla nazionale non sono ai livelli richiesti per il rugby internazionale”. l’ennesima grana dalla stampa britannica per l’head coach dell’Inghilterra, reduce da un Sei Nazioni davvero negativo e passato in due mesi dall’essere quasi un eroe a il capro espiatori di tutti i problemi del rugby d’Oltremanica. Un atteggiamento che da quelle parti non è certo una novità.

Rugby e salute: dal Texas una nuova ricerca sulle concussion. E le notizie non sono buone

La ricerca non è specifica sul rugby ma questo aspetto alla fine è solo un dettaglio. Il tema è quello delle concussion, sempre più al centro della scena di Ovalia con tutto il suo bagaglio di preoccupazioni, studi, ricerche e protocolli per scongiurare qualsiasi problema e salvaguardare la salute dei giocatori di una disciplina in cui lo scontro fisico è dominante.
“Traumi alla testa, a volte provocati anche da sport come calcio o rugby, anticipano in media di due anni e mezzo la comparsa dell’Alzheimer”: inizia così un lancio d’agenzia dell’ANSA di martedì pomeriggio.
Ad annunciarlo è una ricerca della University of Texas Southwestern di Dallas, Stati Uniti. I ricercatori hanno studiato ben 2.133 casi di soggetti a cui il morbo di Alzheimer è stato diagnostico dopo la morte in seguito ad una autopsia, una novità in questo particolare ambito scientifico dove fino ad oggi ci si era affidati allo studio di casi riferiti a soggetti in vita.

Uno stralcio dell’agenzia: “Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Neuropsychology, esamina le lesioni cerebrali avute da giovani in relazione a un deterioramento della salute del cervello una volta diventati anziani. I traumi alla testa dovuti allo sport o al gioco sono molto frequenti, tanto che tra gli americani di età pari o superiore a 5 anni se ne verificano circa 8,6 milioni di episodi all’anno. (i ricercatori, ndr) hanno scoperto che le persone che hanno subito un trauma accompagnato da perdita di conoscenza per più di 5 minuti si sono viste diagnosticare il morbo di Alzheimer in media 2,5 anni prima rispetto ai coetanei che non avevano subito tali lesioni alla testa”.

Numeri e dati preoccupanti, così come sono preoccupanti le parole del neuropsicologo responsabile della ricerca, Munro Cullum: “Non sappiamo come e in quali casi le lesioni alla testa aumentino il rischio di problemi neurodegenerativi più avanti nella vita”. Poi sottolinea che la conferma delle varie ipotesi sul tavolo richiederà anni perché le cartelle cliniche oggi disponibili spesso non includono una storia completa di traumi cerebrali. “Dobbiamo aspettare dai 40 ai 50 anni – ribadisce Cullum – ovvero quando gli atleti di oggi avranno 60 e 70 anni per poterli studiare”. Decenni, un tempo lunghissimo che può lasciare dietro di sé grossi problemi tra gli atleti in attività.
World Rugby e le varie federazioni non si stanno comportando come ha purtroppo invece fatto la NFL in passato (pagandone pesantemente le conseguenze) e questo è sicuramente un bene. Il percorso corretto è stato preso ma non bisogna abbassare la guardia nemmeno per un minuto.