Il Coronavirus, ovvero come il Covid 19 mise allo scoperto le chiappe del rugby italiano

Walter White, protagonista di “Breaking Bad”

Una emergenza non preventivabile che fa i raggi X a un movimento che per troppi anni si è guardato l’ombelico, federazione e club. Poi, improvvisamente, arriva la realtà. 

“October surprise” è la definizione con cui negli Stati Uniti viene indicato l’evento o il fatto di cronaca inatteso che nell’anno delle elezioni presidenziali (quindi come questo 2020) scompagina le carte in tavola e che può cambiare il corso delle cose, ribaltando posizioni che si erano consolidate nei mesi precedenti. Tipo la diffusione delle mail private di Hillary Clinton, rese pubbliche qualche settimana prima del voto nel 2016 e che secondo molti analisti punirono la candidata democratica in alcuni stati chiave, rendendo inutile la sua vittoria nel voto popolare. Una roba così. 
A volte questi fatti imprevedibili e inaspettati arrivano un po’ prima, come avvenne per l’uragano Katrina, ma insomma, ci siamo capiti.
Il Coronavirus ha letteralmente fermato il mondo e lo sport non è rimasto immune, è anzi forse uno degli ambiti che più hanno reso plastica la serrata – il lockdown – in cui ci troviamo a vivere da qualche settimana praticamente ad ogni latitudine. Fermati i campionati di calcio, le coppe europee, gare di F1 e motomondiale rinviate e/o cancellate, Wimbledon e Roland Garros hanno tirato giù la serranda, Olimpiadi rimandate di un anno e chi più ne ha più ne metta. 

Il rugby non è da meno e il suo calendario da qui ai prossimi mesi è stato congelato o annullato. Saltate le ultime giornate del Sei Nazioni, stagione finita in Francia e Inghilterra, tour di giugno in fortissimo dubbio.
E l’Italia? La federazione la scorsa settimana ha diffuso questo comunicato:
“Il Consiglio Federale della FIR si è riunito in video-conferenza giovedì 26 marzo per definire le azioni da adottare a fronte della pandemia da Covid-19 attualmente in atto, dopo aver temporaneamente sospeso sino al 3 aprile ogni forma di attività agonistica. L’organo di governo del rugby italiano ha deliberato la sospensione definitiva della stagione 2019/2020. La decisione del Consiglio determina la mancata assegnazione dei titoli di Campione d’Italia previsti dai regolamenti e, al tempo stesso, di tutti i processi di promozione e retrocessione”.
E fin qui nulla da eccepire.
Anzi, qualcuno ha criticato la decisione sostenendo che fosse prematura, che il campionato si potrebbe finire giocando a giungo e luglio, magari soltanto i play-off scudetto. A mugugnare sono stati club della parte alta della classifica, quelli che ai play-off ci possono arrivare, quelli che sperano/pensano di poter vincere il torneo. Le cronache ci raccontano di brontolii più o meno forti che arrivano dalle parti del Valorugby Reggio Emilia, da Calvisano, dalle Fiamme Oro. Molto più sfumate e attendiste invece le posizioni di Petrarca e Viadana.
Poi c’è il caso Rovigo: il presidente Zambelli ha usato parole dure contro la decisione federale, però va detto che è stato l’unico a farlo apertamente e a metterci la faccia. Certo, quello che ha detto è molto impopolare e – parere personale – pure sbagliato, ma almeno non si è nascosto.

Zambelli si è preso gli sberleffi di grandissima parte del mondo ovale, e un po’ se l’è andata a cercare. Il suo errore è stato quello di guardare il suo orticello, come se quello che sta succedendo attorno fosse un dettaglio secondario. A Milano diremmo che è stato un po’ pirla – bonariamente, s’intende – però è anche vero che non possono nemmeno essere le società a dover pensare e a risolvere situazioni di questo tipo. Non lo fanno i club del calcio che muovono decine, in alcuni casi centinaia di milioni di euro, a maggior ragione non è compito di presidenti che fanno una fatica enorme a tenere in piedi realtà da un paio di milioni (quando sono particolarmente ricche) e per le quali i soldi della federazione sono una colonna portante, in alcuni casi l’unica o quasi, per continuare a sopravvivere.

Perché il coronavirus ha portato alla luce in maniera evidente e non più equivocabile i mali del rugby italiano. Mali che nascono dalla gestione della FIR del movimento, da scelte che nel corso degli anni hanno portati risultati molto lontani da quelli attesi (quando quelle scelte non erano proprio del tutto sbagliate) ma che non sono mai state davvero messe in discussione da chi si trovava poi a vivere con quelle decisioni: le società. 
I club hanno sempre accettato di buon grado le briciole che arrivavano da mamma FIR, pochi finanziamenti che a loro sono bastati per tirare avanti senza rendersi conto (?) di essere finiti in un meccanismo di perenne compromesso al ribasso che ha portato il nostro campionato nazionale ad essere quello che è: poco seguito, con un richiamo mediatico nullo e incapace nel suo complesso di svolgere il compito tecnico che gli compete e che tante volte è stato sbandierato dal presidente Gavazzi: ovvero quello di essere la palestra dei nostri giocatori e – aggiungo io – dei nostri tecnici, dei nostri dirigenti e dei nostri arbitri.
La colpa è sicuramente della FIR ma anche di chi non ha mai protestato, di chi non ha mai portato in fondo battaglie che lo riguardavano da vicinissimo, di chi si è lamentato per poi sostenere lo status quo con il suo voto, di chi non ha saputo alzare gli occhi dal proprio giardinetto e capire che perdere un briciolo di autonomia per dare vita a una Lega dei Club sarebbe stato vitale. E invece nisba. Con toni e sfumature diverse da squadra  asquadra, va da sé, ma ci siamo capiti.

Il dividi et impera è servito alla FIR per imporre senza colpo ferire qualsiasi sua decisione presa per sostenere l’Alto Livello (sì, è vero che è l’unico che porta reddito ma lo scopo della federazione è quello di sostenere il gioco e lo sviluppo della disciplina, non solo la nazionale e poco altro) ma è stato sfruttato da ogni società per ottenere accordi e favori che, vista l’ambito angusto e limitato del proprio panorama, non potevano che essere limitati e angusti. Ne ha approfittato negli ultimi anni anche la Benetton Treviso, questa cosa va detta: il club veneto è riuscito a imporre alcune sue scelte/libertà assolutamente condivisibili ma alla fine il famoso “dialogo” (davvero esiste?) tra i biancoverdi e la federazione sembra più un patto di non belligeranza, una sorta di “non rompermi le scatole su quello che faccio e io non le rompo a te”. La prassi ormai instaurata sulla gestione dei permit players in totale assenza di normativa condivisa è solo un esempio.
Chiaramente il Benetton è l’unica società che ha la forza di imporre questa cosa e non ne ha mai fatto una sorta di punto di svolta che potesse fare da richiamo a tutto il movimento. Non era obbligato a farlo, s’intende, ma alla fine anche a Treviso si sono accontentati. Peccato.

Il coronavirus è stata un “October surprise” anche per la FIR. Non so se avrà un qualche effetto sulle prossime elezioni presidenziali, ma non è questo il punto. Il fatto che l’emergenza pandemia, con tutto quello che si è portata dietro, ha messo in mostra quello che tutti sappiamo, che il re è nudo e che le sue terga non sono un grande spettacolo. 
Perché la federazione era da anni abituata a gestire l’ordinario in mezzo a mille difficoltà economiche, ora si trova a gestire uno straordinario con quelle stesse forze. Insufficienti. Certo, all’orizzonte ci sono i famosi capitali CVC che però sono pronto a scommettere che a Roma volessero usare diversamente.
La FIR non sembra avere la forza economica e l’autorità politica necessaria per gestire un momento così complicato. Parlo dell’autorità e della credibilità che ti costruisci giorno dopo giorno negli anni, non di quella data da uno statuto. Parlo di autorevolezza. 
Il primo aprile si è tenuto un altro Consiglio Federale, cosa si è deciso? Questo il comunicato ufficiale: 
Il Consiglio ha definito di aggiornarsi a venerdì per definire una data utile all’approvazione del Bilancio Preventivo 2020, per il quale si è reso necessario un processo di opportuna revisione a fronte del momento storico attuale.
Il Consiglio ha, in prima istanza, ribadito l’impegno a garantire per la Stagione Sportiva 2019/20 gli stessi stanziamenti complessivi di natura contributiva già definiti nei confronti delle Società affiliate, secondo i criteri adottati per tutti i campionati per la Stagione 2018/19.
Al tempo stesso, il Consiglio ha confermato gli stanziamenti a supporto delle Società del Peroni TOP12 così come originariamente definiti per l’esercizio corrente. 
Contestualmente il Consiglio raccomanda alle Società il pieno rispetto, quale tutela per i giocatori, degli accordi contrattuali con i tesserati per l’intera stagione corrente. 
Contributi straordinari destinati al movimento saranno oggetto di successiva determinazione sulla base delle risorse e, comunque, nel rispetto della sostenibilità del Bilancio 2020“.

Traduciamo: quanto era già stato pattuito viene confermato, quei soldi li avrete, per gli extra bisogna vedere il Bilancio Preventivo che però va rivisto perché saltare le ultime due gare del Sei Nazioni per noi è stata una botta, è poi saltato il prevedibile sold-out con l’Inghilterra e dobbiamo ridare i soldi dei biglietti, un vero casino e io non ho molto idea di come uscirne perché i soldi sono quelli che sono.
Tutto rimandato perciò al Bilancio Preventivo 2020 con la premessa che ogni decisione sarà presa nel “rispetto della sua sostenibilità”. Ora, tralasciando il punto della situazione attuale (io sinceramente mi sono perso da un po’) su quali siano i Bilanci Preventivi e Consuntivi approvati dal Consiglio Federale ma sotto revisione del CONI, quelli che hanno ricevuto il via libera di sui sopra con mesi mesi e mesi di ritardo su quanto prevedono le norme e quelli approvati ma ancora non pubblicati, mi pare chiaro che la politica FIR sia in questo momento quella di prendere tempo. Non l’accuso di nulla, se non di aver fatto le cose a dovere prima, perché è chiaro che ora non può che fare così. Oppure no, potrebbe mettere sul banco un tot di soldi specificando che li toglierà all’Alto Livello, ma non succederà. Perché siamo da anni entrati in un circolo vizioso e questo è il risultato.

Sto andando lunghissimo, ma ora chiudo. Prima parlavo di mancanza di autorevolezza politica. Un esempio: il presidente della Federazione francese Bernard Laporte subito dopo la decisione della FFR ha scritto di suo pugno una lettera ai club francesi in cui si annunciavano due cose: misure straordinarie di sostegno a partire da quel momento a tutta la stagione successiva (ovvero fino a giugno 2021) e l’immediata messa a disposizione di 35 milioni di euro per aiutare 1900 società di ogni livello. Trovate tutto sul sito ufficiale della federazione transalpina.
Ora, è chiaro che in tutta Ovalia solo Francia e Inghilterra possono attingere a quella quantità di risorse, non sto certo paragonando questo aspetto.
Però va detto che oggi la FIR avrebbe difficoltà a promettere 500mila euro, cifra che probabilmente non basterebbe affatto. Va detto che la FIR non ha avuto quella prontezza e quella velocità di decisione neanche per mettere sul tavolo 200mila euro come prima risposta all’emergenza. Va detto che Laporte ci ha messo la faccia mentre sono un po’ di mesi che il numero uno del nostro rugby è uscito dai radar. Va detto che rappresentanti di alcuni club di Top 12 hanno riferito a questo blog di una certa insistenza federale nel cercare un appoggio da parte delle società su decisioni ancora tutte de venire: intendiamoci, federazione e società devono parlarsi ma il Top 12 è un torneo di proprietà della FIR e l’onore e l’onere di certe scelte sono tutte in capo alla federazione. Cercare un appoggio quasi aprioristico con la controparte, in assenza di misure concrete, dà l’impressione di un volersi tutelare con una sorta di chiamata in correo. Una specie di “eh ma ci avevate detto che stavate con noi”. Non credo debba funzionare così.

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7 pensieri su “Il Coronavirus, ovvero come il Covid 19 mise allo scoperto le chiappe del rugby italiano”

  1. Commentare è anche difficile, ma per farla breve siamo arrivati alla resa dei conti, o si stravolge il tutto, ma forse prima servono gli uomini che si prendono la responsabilità di questo cambiamento. Oppure si continua sulla solita falsa riga, questa volta daremo tutta la colpa al virus.
    Adesso si vedranno i frutti della programmazione degli ultimi anni; tutte le altre union delle partecipanti al 6N hanno già assicurato tutti i club che non saranno lasciati soli, aiuti economici per tutti i club. Ovviamente non sono soldi che cadono dalle nuvole, ma spesso frutto dei guadagni che riesce a fare la federazione come entità economica. Che poi è quello che manca a noi, ma anche a tutte le altre tier 2 di ovalia…
    E’ il momento buono per guardarci allo specchio ed ammettere chi siamo veramente…
    Ora come ora se si vuol salvare capra e cavoli sarà necessario prevedere un bilancio in forte deficit, in attesa dei fondi CVC, altrimenti il rischio è quello perdere per strada diversi club

      1. @Ginger, certo che te lo spiego, purtroppo questo dramma mondiale, che è la pandemia, ha messo a nudo, definitivamente, il reale spessore del domestic italiano e quello che, invece, dovrebbe avere; mi spiego meglio: è palese che 12 squadre per il domestic di una movimento come quello italiano sono troppe (la Scozia, per fare l’ esempio più vicino a noi come numeri ne ha 6); il fatto di voler continuare a voler per forza con questo semi professionismo, che il movimento italiano, per il suo domestic , non si può permettere è; dove, sovente si ingaggiano stranieri, non azzurrabili in prospettiva; è venuto completamente a galla e adesso si palesa per quello che è, un vaso di argilla e per giunta senza base di appoggio; in definitiva, secondo me sarebbe il caso di dimezzare il numero delle squadre (4 club+2 seconde/accademie delle celtiche), concentrando i migliori prospetti e le risorse economiche, vietando di ingaggiare stranieri non equiparabili e, anche tra questi, divieto sopra una certa età ecc..

  2. Non voglio opinare, però mi rattrista che si mescoli un dramma mondiale con il piccolo mondo del rugby, ………..

  3. “E’ vero, ci sono cose più importanti, di calciatori e di cantanti”. @Tony, hai ragione. Ma in questi quaranta giorni ho provato a far sopravvivere la mente ed il rugby mi è stato d’aiuto. Come andare a vedere le partite di una volta, magari mai viste per intero. Grazie al canale Rugby World Cup su Facebook e Youtube ho visto (finalmente! Francia-Nuova Zelanda del 1999 (avrei un aneddoto su quella partita, ma…un’altra volta) e Figi-Argentina del 1987. Dei Pumas avevo già visto altre partite degli anni Ottanta e… devo dire che non mi sono capacitato di come abbiano perso quella partita. Beh, del resto, con l’Italia vinsero al pelo, grazie ad un clamoroso avanti di Fabio Gaetaniello. Comunque, l’ho presa larga. In Argentina la storia del rugby è iniziata nel XIX secolo (la Federazione fu fondata nel 1899) e…sappiamo bene la fatica che ha fatto a farsi accreditare con l’International Board. E una volta accreditata, solo al quarto mondiale è arrivato il passaggio ai quarti, dopo che nei primi tre i Pumas avevano vinto una sola partita (con noi…perdendo peraltro nel 1995). E non è che quelle generazioni fossero scarse, anzi. Solo che laggiù ha una tradizione tutta sua, passata di generazione in generazione, diffusa nei centri più popolosi del Paese; e nonostante sia sport di élite, i numeri dei giocatori sono impressionanti; con un Sevens competitivo e la pecca del rugby femminile, ancora agli inizi. Anche se lo sport femminile in Argentina è molto indietro rispetto all’Europa, con un’unica atleta di livello (una mia lontanissima cugina!). Ora, è difficile poter pensare ad un modello Argentina qui da noi, perché loro sono laggiù nel loro isolamento, mentre noi quassù siamo vicini ad altre federazioni; però…laggiù sono ancora affezionatissimi ai loro club, che fanno i loro campionati statali; ma quando i giocatori sono pronti per entrare fra i Pumas, li fanno passare dagli Jaguares (ed i risultati, rapidissimi, sono lì da vedere). Ripeto, modello non replicabile qui da noi. Però… qualche spunto lo si potrebbe avere.

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