L’italica capacità di fare spallucce e il Paradigma Uganda (e Germania)

Ce la si potrebbe cavare dicendo che tutto sommato l’Uganda al Mondiale 2018 era presente e l’Italia no, però fare spallucce serve a poco. Al massimo a mettere la polvere sotto i tappeto, cosa che dicono non serva un granché a risolvere i problemi. Dicono.
Io di rugby a 7 capisco poco o nulla, ma non bisogna essere esattamente dei geni per rendersi conto che è un codice capace di diventare un veicolo importante per qualsiasi movimento e che la preparazione tecnico/tattica/atletica del Seven può riversarsi in maniera positiva nel rugby a 15. E poi è uno sport olimpico, dovrebbe bastare questo a smuovere le acque. Invece.

Invece l’Italia va in Cile, a Vina del Mar, e nella prima giornata delle World Rugby Challenger Series – un torneo nuovo di zecca che assieme alla tappa di settimana prossima a Montevideo (Uruguay) “regala” otto pass per le World Series di Hong Kong – rimedia una sola vittoria e due sconfitte. Il Paraguay lo abbiamo battuto, Uganda e Germania ci superano. Uganda e Germania.Ripetiamolo: Uganda e Germania. Nella seconda giornata rimaniamo a zero contro l’Uruguay, ma va detto che la partita è viziata da due cartellini, di cui uno rosso inesistente.
Come dicevo, io di rugby a 7 capisco poco o nulla, ma due cose so metterle in fila. Tipo che è vero che in quel particolare codice alcune nazionali hanno trovato spazi di crescita e successi a loro preclusi nel rugby a 15, come le Fiji o gli Stati Uniti o il più sorprendente Kenya (che poi: farlo pure noi pare brutto?), ma Uganda e Germania rimangono movimenti ampiamente minori e minoritari. Non voglio mancare loro di rispetto, ci mancherebbe, ma per pareggiare i soldi che noi riceviamo ogni 12 mesi in virtù del nostro status privilegiato quei due dovrebbero mettere assieme le loro risorse di diversi anni. Parecchi anni. Eppure.

Mi si dirà che i soldi non sono tutto, ed è vero. Infatti servono anche idee, progetti, programmazione. Pure un po’ di culo – passatemi il francesismo – ma solo con quello non si va da nessuna parte.
Noi i soldi in linea teorica li abbiamo. Il CONI ogni anno versa alla FIR un tot di milioni perché il rugby è uno sport olimpico ma effettivamente quanta parte di quelle risorse vengono investite nel Seven? Chissà se il CONI chiederà mai conto di quei finanziamenti…
Il resto invece latita, parlo ovviamente delle idee, dei progetti e della programmazione. Al piccolo gruppo che segue il rugby a 7 non si può imputare nulla: Orazio Arancio, Andy Vilk e compagni di (dis)avventura ci mettono tutto l’impegno e l’entusiasmo del mondo. Ma dire che predicano nel deserto è limitativo.

La litania la conosciamo tutti a memoria: non abbiamo un campionato dedicato, i club non fanno i salti di gioia (eufemismo) quando un loro giocatore viene convocato per il Seven, non abbiamo di conseguenza atleti “dedicati” e quando la cosa sembrava in dirittura d’arrivo – ricordate la famosa accademia che sarebbe dovuta sorgere presso le Fiamme Oro? – è stata fatta sparire dal tavolo senza che nessuno cercasse di spiegare un perché che avesse un minimo di senso.
Però a quanto pare va bene così. Forse la gestione di questi anni del rugby a 7 è stata quella giusta, e sono gli altri che non hanno capito nulla. Tutti gli altri. Perché se prendiamo la classifica finale del Mondiale 2018 giocato a San Francisco ci accorgiamo che i nostri principali partner/avversari c’erano tutti e il più attardato era il Galles con un 11° posto che noi avremmo fatto passare per un mezzo trionfo per diversi anni a venire.
Ma sì, sarà così, che cosa devono capirne Germania e Uganda?

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Nelle anonime acque italiane del Seven

Un codice rugbistico di cui si parla molto ma che dalle nostre parti non ha una programmazione vera. Non un campionato nazionale, non un progetto, non una idea forte e precisa. E i risultati inevitabilmente non arrivano. Non potrebbe essere altrimenti.
E’ giunto il momento di fare delle scelte. Oppure di lasciar perdere. Magari è un po’ drastico, ma sarebbe onesto.

Un Tinello con vista sul derby tra Zebre e Benetton Treviso. E quel calo di tesserati…

Nell’appuntamento prenatalizio Vittorio Munari analizza il momento delle due formazioni italiane che questo fine settimana daranno vita al primo derby celtico. E nel menu finisce anche il calo dei tesserati FIR (-5mila unità) così come annunciato negli ultimi dati diffusi dal CONI.
Palla a Vittorio!

Parole, slogan e ritorni annunciati: la palla ovale torna a raccontarsela intorno al Flaminio

“Lo stadio Flaminio deve tornare ad essere la casa del rugby”. Non si contano le volte che lo abbiamo sentito dire in questi anni. L’ultima è successa giusto ieri…

Nel luglio 2011 la notizia che l’Italia del rugby lascia il Flaminio per accasarsi allo Stadio Olimpico. Le parole di commiato dell’allora presidente FIR Giancarlo Dondi sono queste: “Dopo undici anni diamo l’arrivederci allo Stadio Flaminio, un impianto che ci ha regalato momenti indimenticabili a cominciare dall’esordio contro la Scozia del 5 febbraio 2000, per portare il più antico e prestigioso torneo del rugby internazionale sul palcoscenico più importante dello sport italiano”.
Ieri l’assessore allo sport del Comune di Roma Daniele Frongia ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Io e la sindaca Raggi abbiamo ricevuto una nota ufficiale del presidente del Coni Malagò contenente un progetto realizzato con la Fir per far tornare il Flaminio la casa del rugby”.

In questo arco di temporale di poco più di 7 anni abbiamo sentito di tutto: proclami di rilancio, progetti, annunci, smentite. Il Flaminio che diventa stadio del Seven, che entra nel dossier per portare i Mondiali di rugby del 2023 in Italia e le Olimpiadi del 2024 a Roma. Stadio che deve essere sede della nazionale femminile e – ovviamente – della terza franchigia celtica. O della seconda, tutte quelle volte che si parla di trasferire le Zebre al sud.
Ovviamente non succede nulla: probabilmente una qualche reale volontà di sistemare quello stadio c’è, ma alla fine al momento si sono rivelate tutte chiacchiere mentre nella struttura crescono erbacce alte quanto un uomo.
Le responsabilità sono di tutti e quindi di nessuno: dalle amministrazioni comunali di ogni colore fino alla famiglia Nervi che considera la struttura una specie di Colosseo moderno (nel frattempo a Londra, buttano giù un tempio come Wembley per rifarlo meraviglioso, più bello di prima).
Ho raccolto una serie di dichiarazioni rilasciate in questi anni, le ho ordinate in ordine cronologico. Viene detto di tutto e il suo contrario, a volte dalla stessa persona nello spazio di qualche mese.
Magari stavolta è la volta buona. Magari. Però non offendetevi se non ci credo un granché…

21 novembre 2012 – Gianni Alemanno, sindaco di Roma
“Vogliamo consegnare il Flaminio in modo che diventi la casa del rugby, ma così come è oggi è troppo piccolo. Abbiamo studiato varie forme di ampliamento, ma la sovrintendenza, Renzo Piano e la Fondazione Nervi, hanno ritenuto questi progetti presentati dalla Federazione del rugby non adeguati, quindi si sta procedendo con un concorso internazionale per l’ampliamento e il restauro del Flaminio”.

17 gennaio 2013 – Gianni Alemanno, sindaco di Roma
“Ormai è consolidato che il Flaminio non basta più. Ci vuole l’Olimpico per il rugby italiano e questo per noi è una grande soddisfazione”.

2 maggio 2015 – Ignazio Marino, sindaco di Roma
“Stiamo scrivendo un bando rivolto agli imprenditori privati nel settore dello sport e sono convinto che ci sarà chi accetterà di avere in affidamento un’opera così prestigiosa per restituirla alla sua antica bellezza e far sì che possa essere utilizzata anche da bambini e ragazzi che non hanno disponibilità economica per fare sport come scherma, nuoto, rugby o calcio”.

16 dicembre 2015
Su Il Tempo si legge che lo Stadio Flaminio sarà la struttura destinata al torneo di Rugby Seven. L’ex casa dell’Italrugby potrebbe essere pure adibita per gli sport equestri, in particolare per il salto ad ostacoli.

12 maggio 2016 – Alfredo Gavazzi, presidente FIR
“Auspico che quando avremo la possibilità di schierare tre franchigie in Celtic League lo stadio Flaminio sia disponibile per il rugby perché è il miglior stadio che io conosca in Italia. Abbiamo bisogno di una casa a Roma perché lo sviluppo della nostra attività non può che passare attraverso una casa a Roma e quindi auspico che questo diventi lo stadio del rugby nel prossimo futuro”.

21 luglio 2016 – Marcello Minenna, assessore al Bilancio del Comune di Roma 
“Sulla manutenzione dello Stadio Flaminio c’è una posta da 6 milioni e 200 mila euro per opere di adattamento alle attività sportive del rugby che non si è mossa da almeno tre anni. Per questo ho avviato nella delibera di Giunta approvata ieri un lavoro strutturale: l’ho chiamato un carotaggio delle poste fantasma”.

10 ottobre 2016 – Carlo Tavecchio, presidente FIGC
Il Flaminio è in stato fatiscente e non lo dico io e quindi noi diamo la disponibilità a qualsiasi tipo di ragionamento anche in consorzio con altri”.

11 marzo 2017 – Alfredo Gavazzi, presidente FIR
“Pensiamo di poter comprare lo stadio Flaminio entro la fine dell’anno. Ma Roma è Roma. Ci vuole tempo. Abbiamo il problema di cercare qualcosa che sia a misura delle nostre esigenze, pertanto, assieme a Malagò abbiamo pensato un’idea per risistemarlo e riportarlo alle sue origini. Per recuperare un patrimonio importante per la città di Roma e per lo sport in generale”.

29 giugno 2018 – Alfredo Gavazzi, presidente FIR
Sposteremo i nostri uffici dall’Olimpico al Flamino e, oltre al campo, sfrutteremo strutture e servizi, palestre e piscine incluse. Ci vorranno un paio di anni.

Lo Statuto dice, lo Statuto fa: breve storia triste di bilanci approvati (in ritardo) e non pubblicati

Il Bilancio Consuntivo FIR è stato approvato una settimana fa, ma non è ancora disponibile. Il motivo? Prima di diventare pubblico deve avere il sì della giunta del CONI. Lo dice lo Statuto federale. Ma secondo quello stesso regolamento il Bilancio doveva essere approvato sei mesi fa. E sul Bilancio preventivo 2018…

Gli inglesi dicono “less is more” (anche se a onor della precisione va detto la frase fu coniata da un architetto tedesco, Ludwig Mies van der Rohe), quindi sarò velocissimo.
Mercoledì 10 ottobre, in quel di Bologna, il Consiglio Federale ha approvato il Bilancio Consuntivo 2017. O goia, o gaudio. Doveva essere approvato entro sei mesi fa, secondo quanto previsto dallo Statuto FIR, però non vogliamo mica formalizzarci su queste quisquilie, no? Cosa volete che siano sei mesi, su. Gufi disfattisti.
Tra l’altro, come recita il comunicato dell’11 ottobre, “Il bilancio, dopo una svalutazione del magazzino pari a 400.000€ circa, presenta un utile di euro 421.414€”. Evviva, il futuro ci sorride.

Però non sarebbe poi così brutto poterlo scaricare, leggere. Stamparlo per il puro gusto di farlo. Ma non si può, ancora non c’è. Sul sito FIR alle 9 del mattino del 17 ottobre nella pagina dei Bilanci Consultivi siamo fermi al 2016. Calma e gesso, su, che fretta c’è?
Comunque bisogna essere onesti: non è colpa della FIR, il fatto è che il Bilancio per essere pubblicato deve ricevere prima il via libera della Giunta del CONI. Lo dice chiaro e tondo lo Statuto federale, quindi non si può certo derogare. Sì, lo stesso Statuto in cui si legge che il Bilancio Consuntivo va approvato entro fine aprile.
Lo stesso documento che dice che il Bilancio Preventivo deve essere approvato entro il 30 novembre dell’anno che lo precede: il Bilancio Preventivo 2018 è stato però approvato ad aprile scorso, con un ritardo di cinque-sei mesi circa, e non è stato ancora pubblicato. Ma non vorrete mica fare i gufi disfattisti, no? Non state a spaccare il capello, su, rosiconi…
Ecco, io lo so che due torti non fanno una ragione, però direi che così non va bene. A naso eh.