Il torneo che la Nuova Zelanda si è inventata per affrontare gli effetti della pandemia ci riporta a uno sport dove le regole sono più chiare ma che allo stesso non piace a tutti: troppi falli, troppe punizioni, Almeno secondo alcuni.
Vittorio Munari ci dice che invece gli effetti positivi superano di gran lunga quelli negativi, sotto tutti gli aspetti.
Accenno finale alla difficile situazione in Sudafrica, che potrebbe avvicinare ancora di più la Rainbow Nation al Pro14…
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L’Italia U20, i Jaguares e Sergio Parisse: tutto nel Tinello di Vittorio Munari
L’inizio è per il recente torneo iridato degli azzurrini, poi si passa al Super Rugby che vede in finale una squadra argentina. Quindi il tema World Rugby tra regole e soldi. E si chiude con il capitano azzurro che ha firmato un contratto con il Tolone… Palla a Vittorio!
Il Super Rugby nel Tinello di Vittorio Munari: quanto è profonda l’orma dei Crusaders
La squadra di Christchurch vince il Super Rugby 2018 e si conferma la più vincente dell’emisfero sud degli ultimi 20 anni. L’analisi di Vittorio Munari:
Dopo Giappone-Italia, quei colpi da samurai caduti nell’indifferenza e nell’apatia
Da tempo scriviamo che i test-match contro i nipponici e la Georgia sono le chiavi di volta della nostro 2018 rugbistico. Il primo è andato davvero male, con una sconfitta netta e meritata che però è stata “accolta” nell’Ovalia italiana con un mix di rabbia d’ufficio e rassegnazione
“Prestazione e risultato: siamo qui per vincere”. Così giovedì mattina il sito ufficiale della FIR intitolava un articolo di avvicinamento al primo test-match degli azzurri contro il Giappone. Il virgolettato era di Conor O’Shea, con il ct azzurro che in un pugno di parole indicava gli obiettivi di quella partita: la prestazione, il risultato e la vittoria. Sappiamo tutti come è andata a finire a Oita, con i Brave Blossoms che hanno vinto in maniera netta per 34 a 17: prestazione, risultato e vittoria sayonara.
Nel dopo-gara il tecnico della nostra nazionale ha detto che “è un punteggio che brucia, inutile nasconderlo. Nei momenti in cui avremmo dovuto imprimere una svolta alla partita non ci siamo riusciti, loro sì (…) Non credo ci sia stata una squadra che ha dominato la partita per ottanta minuti, ma è vero che il Giappone ha tenuto il controllo della partita nell’ultimo quarto di gara. Noi non abbiamo saputo mettere punti sul tabellone quando ne abbiamo avuto la possibilità, sia nel primo che nel secondo tempo, e come era già capitato in passato abbiamo permesso che l’energia del match ci scivolasse dalle mani (…) noi dobbiamo, come sempre, concentrarci sulle cose che possiamo controllare e non sull’avversario. Segnando quando avremmo dovuto, la partita sarebbe stata diversa”.
Sono frasi che abbiamo più volte sentito in questi mesi, una specie di ritornello amaro che evidentemente sottolinea problemi che non riusciamo a risolvere. Una difesa verbale che ormai mostra il fianco.
Il Giappone non ha fatto certo stropicciare gli occhi ma ha dominato praticamente ogni aspetto della partita, a partire dalla determinazione e dall’aggressività fisica fino ad arrivare alla mischia e – soprattutto – alla touche. I padroni di casa hanno commesso molti errori ma i loro uomini arrivavano quasi sempre prima sul pallone ed erano sempre prontissimi a portarsi in grande velocità sul nostro portatore di palla. Non siamo stati in grado di dare un colpo di frusta alla partita quando ne abbiamo avuto la possibilità? Può essere, probabilmente è così, ma sono anni che andiamo avanti a giustificazioni che per premessa hanno un “se” o un “ma” e che ci hanno portato diritti a questo punto.
Generalmente i nostri tour di giugno hanno quasi sempre un approccio mentale molto “estivo”. Io credo che sia una cosa inconscia, un qualcosa di legato al nostro modo di essere e alla nostra cultura che ci fa percepire questo appuntamento come una via di mezzo tra il lavoro e la vacanza, una specie di impegno professionale che però si può affrontare con le infradito. Questa volta però c’erano tutte le premesse per vedere qualcosa di diverso, dalle convocazioni alle parole di giocatori e staff tecnico, fino alla formazione schierata. Non sto dicendo che i ragazzi andati in campo abbiano preso il match sottogamba o come una sorta di allenamento, ma l’approccio mentale alle gare nel mese di giugno rimane comunque problematico.
Tutto questo non basta a spiegare il ko di Oita. E’ vero che noi siamo al termine di una lunga stagione agonistica mentre i giapponesi sono nel pieno del loro calendario ma non dovremmo nemmeno dimenticare che il professionismo è anche questa roba qui e che comunque proprio il Giappone lo scorso novembre, nell’ultimo impegno del tour europeo (quindi alla fine della loro stagione agonistica) costrinse la Francia a un pareggio in quel di Parigi, un pareggio davvero stretto per la nazionale asiatica. Quindi c’è modo e modo di affrontare le cose.
Poi dovremmo anche guardare le cose un po’ in prospettiva, sul lungo periodo. Al Mondiale sudafricano del 1995 gli All Blacks asfaltavano i nipponici 145 a 17: ora, è vero che i tuttineri rifilarono 70 punti (a 6) alla nostra nazionale qualche mese dopo in quel di Bologna, ma quell’Italia alla stessa RWC batté l’Argentina e venne sconfitta dall’Inghilterra con un dignitosissimo 27-20. Un’Italia che nel mese di maggio di quell’anno superò l’Irlanda. In 23 anni è cambiato tutto per noi, è arrivato il treno del Sei Nazioni ma da quanto tempo non infiliamo risultati simili? Il nostro anno migliore è stato il 2013, stiamo parlando di 5 anni fa, ed è stato un caso isolato. Qua e là facciamo un exploit che però è appunto tale. Ci aggrappiamo a quello e ci raccontiamo che tutto va bene e che comunque abbiamo svoltato. In attesa dell’exploit isolato successivo.
A Oita però abbiamo visto in campo cose diverse. Abbiamo visto un Giappone che oggi ci è superiore, che da alcuni anni ha intrapreso un percorso di crescita che sta seguendo con costanza, nonostante qualche inevitabile stop & go. Un Giappone che è figlio del Super Rugby: 13 giocatori sui 15 titolari giocavano nella franchigia dei Sunwolves, più il 100% delle riserve. E no, il punto non è che loro giocano in una sola squadra mentre i nostri in due (Zebre e Benetton). No, il punto che questo blog mette sul tavolo da qualche tempo è un altro e cioè che forse il Pro14 non è così performante come generalmente si pensa e che vincere e soprattutto perdere nel Super Rugby (cosa quest’ultima che accade molto spesso ai Sunwolves) ti fa crescere e ti dà una consapevolezza maggiore. Intendiamoci, so benissimo che il torneo dell’emisfero australe è superiore a quello celtico ma il fatto è che oltre a questo bisogna aggiungere che probabilmente il Pro14 è pure sopravvalutato. Certo, con l’Eccellenza che è messa come tutti sappiamo la competizione ha gioco facile a vincere.
Un’ultima cosa. Nel giugno di quattro anni fa l’Italia veniva battuta di tre punti (26-23) a Tokyo dal Giappone. Jacques Brunel, allora ct della nazionale, finì sulla graticola. Io solo qualche giorno fa scrivevo circa la necessità di confermare Conor O’Shea al suo posto nel prossimo quadriennio e il ko di Oita non mi ha fatto certo cambiare idea, ma c’è comunque da sottolineare la sostanziale indifferenza o apatia depressa con cui il risultato di sabato è stato accolto da media e tifosi. Quelle che si sono lette e viste in giro sono di rito o poco più. Le critiche possono aiutare, certo non bisogna fare gli offesi, saperle accettare e non relegarle tutte sotto l’etichetta “ce l’avete con noi”. Una cosa che la dice lunga sullo stato d’animo del nostro movimento.
Domani si parla di Nazionale U20.
Ci sono una texana, due sudafricane e una tedesca. Il futuro del Pro12 come una barzelletta?
Il torneo celtico pensa da tempo a un allargamento e dopo le varie sirene nordamericane (si era parlato anche di Canada) e le indiscrezioni su Cheetahs e Southern Kings l’ultimo rumors riguarda la nazionale tedesca, ma solo dopo il 2020
Prima l’attenzione era tutta rivolta agli Stati Uniti, costa est. Città come Boston, Philadelphia, New York che negli ultimi anni sono state sempre più coinvolte nel rugby europeo e che possono garantire una immigrazione “celtica” – leggi: irlandese, gallese e scozzese, nonché italiana – su cui poter lavorare. Il board del Pro12 guardava a quelle latitudini per i suoi mai smentiti progetti di allargamento. Poi la east coast è sparita dal tavolo, dove è arrivato il dossier su Houston, Texas, non prima però di alcuni rumors che davano qualche chance anche a Toronto. La città che fa da sede alla NASA sembrava avere quella con le carte più in regola da un punto di vista strutturale-societario anche se chi governa il Pro12 qualche dubbio sull’interesse del pubblico non lo ha mai nascosto. In più c’è la grana trasferte, con voli da oltre una decine di ore partendo da Londra. Alla fine anche l’opzione a stelle e strisce sembra essere tornata in frigorifero, e sicuramente pesa anche la promessa di battaglia in ogni tribunale possibile annunciata da Doug Schoninger, l’imprenditore che ha dato vita al Pro Rugby USA, il campionato del quale si è giocato una sola edizione e che ha in mano a suo dire un contratto di esclusiva con la federazione statunitense e – tramite quest’ultima – con World Rugby per la formazione di una squadra professionistica di rugby a 15 per quel paese.
Ecco quindi che nelle ultime due settimane salta fuori il Sudafrica, o meglio, i Cheetahs e i Southern Kings. Secondo la BBC ci sarebbe già un invito formale per le due franchigie che stanno per essere tagliate dal Super Rugby, cosa quest’ultima non ufficiale ma che viene data per sicura. Il Sudafrica è lontano? Sì, ma il fuso orario è quello europeo ed è un paese rugbistico, cosa che faciliterebbe non poco l’aspetto business a partire dai diritti televisivi.
Però fermi, aspettate un attimo: secondo i media inglesi il board celtico ha iniziato discussioni preliminari anche con la federazione tedesca, cosa confermata al sito irlandese the42.ie da Klaus Blank, presidente della Deutschen Rugby-Verbandes. Qui ad essere interessato non sarebbe un club ma la nazionale germanica e si andrebbe a dopo il 2020, più in là rispetto all’allargamento che interesserebbe Sudafrica (o USA) e che partirebbe dalla stagione 2018/2019. Il progetto tedesco avrebbe l’appoggio del miliardario Hans Peter Wild, proprietario di una compagnia che vende heath drinks in tutto il mondo talmente appassionato di rugby che è l’uomo che tutti indicano come prossimo proprietario dello Stade Francais…
Ricordo che il contratto che lega il Pro12 alla FIR scade proprio nel 2020.
Nel titolo parlo di barzelletta ma non volevo essere sarcastico (non più di tanto, almeno), era più un “aggancio” per le diverse provenienze geografiche dei protagonisti che potrebbero essere coinvolti in questo allargamento di cui potremmo sapere già molto di più entro la fine del mese.
In realtà siamo di fronte a un torneo che sta cercando disperatamente un modo di crescere sotto l’aspetto del giro di affari più che in quello meramente sportivo. Destinazioni come USA e Sudafrica vanno in questa direzione, l’opzione tedesca è la più debole oggi ma sul lungo periodo potrebbe anche rivelarsi interessante. D’altronde (molto) interessanti lo eravamo pure noi, ma in sette anni di esperienza celtica quella che era l’iniziale promessa italiana non è mai stata mantenuta, sotto un po’ tutti gli aspetti. Almeno finora.