L’Aquila Rugby Club ha messo la parola “fine” sulla sua saracinesca.
Come si fa a parlare, occuparsi, scrivere di una cosa del genere? Perché per chi ama il rugby L’Aquila non è un posto come un altro e quindi non puoi non parlarne, non occupartene, non scriverne. Però il rischio di scadere nell’ovvio, nel banale, nel trito e ritrito, nel “lutto d’ufficio” (passatemi la brutta espressione) è un rischio enorme. Basta davvero un attimo.
E la colpa – sempre che di colpa si possa parlare – non sta nel fatto che uno abbia o meno il cuore di pietra e/o sia insensibile. No. Il fatto è che uno per quanto possa essere un appassionato ovale, per quanto si abbia avuto la fortuna o meno di conoscere quella città e i suoi abitanti, non potrà mai vivere questi difficilissimi momenti come qualcuno che aquilano lo è per davvero, per nascita o vissuto quotidiano.
Ho quindi chiesto a Christian Marchetti – collega, romano d’adozione ma aquilano doc (e che ringrazio infinitamente) – di scrivere una lettera aperta per Il Grillotalpa. Eccola.
Non è facile commentare la sparizione dell’Aquila Rugby Club, custode sul piano formale della Grande L’Aquila dei cinque scudetti, di una tradizione lunga 82 anni e di un simbolo dentro e fuori dal campo per il capoluogo abruzzese. Non lo è per un aquilano né per chi aquilano non è e tra gli anni ’80 e i primi ’90 del secolo scorso ha spesso assistito, magari con un pizzico d’invidia, a qualcosa di inimmaginabile nel rugby italiano.
Storicamente, i rugbisti aquilani sono sempre stati visti come componenti di una sorta di “enclave maori”. Gente di granito e con lo sguardo “paragulo” (citando Pasolini) in grado di sovvertire qualsiasi pronostico, spinto sugli spalti da un pubblico sempre numeroso e caldissimo. “Benvenuti al Tommaso Fattori”, scrissero su un mitico striscione che fece capolino il 22 aprile 1994 sugli spalti del Plebiscito di Padova. L’occasione era la finale scudetto contro la corazzata Milan della polisportiva di Berlusconi. La partita, quella del prima e dopo. Quella che consegnò il quinto scudetto ai neroverdi nonostante Caione e compagni fossero già dati per spacciati. Era la truppa di Massimo Mascioletti, un gruppo tecnicamente imperfetto al cospetto di una schiacciasassi ma in grado di vincere gettando il cuore ben oltre il proverbiale ostacolo.
Ieri, per motivare la mancata iscrizione in campionato, L’Aquila Rugby Club ha parlato di ben altri ostacoli. Ha parlato di soldi che mai e poi mai erano stati da ostacolo, appunto, a una passione immensa.
Provate a chiedere a Viadana, che anche ai tempi d’oro e con L’Aquila in picchiata, ha sempre tentennato ai piedi del Gran Sasso. Provate a chiedere ai team veneti, che in Abruzzo hanno sempre trovato sfide durissime. Talvolta impossibili. Provate a chiedere a chi ha sempre ammirato quelle mischie rocciose plasmate a pane e frittata e a trequarti imprevedibili. In tutti i sensi. Come definire, altrimenti, il Serafino Ghizzoni scudettato in quella finale del ’94 a quarant’anni?
E vogliamo parlare, ancora, di cosa sia “La Rugby” (viene chiamata così da una vita) per L’Aquila? Della straordinaria accoglienza che la città ha sempre tributato alla Nazionale? Della festa “fac simile” del Sei Nazioni messa in piedi in occasione di quel match delle Zebre sul prato del Fattori? Tra le tante missioni impossibili, La Rugby è riuscita persino a unire in maniera impensabile due mondi agli antipodi come la pallovale e il calcio. Prendete gli ultrà dell’Atalanta, che nel 2009 raccolsero fondi per la squadra per poi spuntare sugli spalti del Fattori. Semplicemente a fare il tifo. Bergamo-L’Aquila: 635 km…
Dicono “Vabbè, ma il rugby non è mica scomparso dalla città”. Certo, oggi c’è l’Unione Rugby L’Aquila, una “franchigia” che raccoglie diverse anime ovali. Ci sarà comunque una squadra aquilana in Serie A, ma quanto accaduto ieri è il funerale a una società che non meritava di morire.
Chi ha voluto tale morte? Sembrerà assurdo, ma neanche oggi avrebbe senso stilare un elenco dei presunti colpevoli. La Rugby, semplicemente, non c’è più, nonostante qualcuno parli soltanto di un cambio pelle.
La Rugby, semplicemente, è L’Aquila. Una città di 70.000 abitanti che vedeva in quella squadra non soltanto beniamini sportivi da sostenere. Vedeva la rivincita, un modo per dire all’Italia intera, sportiva e non: “Ci siamo anche noi”. E tutto questo prima dell’arrivo dei riflettori in occasione degli eventi drammatici che ben conosciamo. Tutto questo quando era conosciuta dai più per il freddo, dai tanti che hanno avuto l’onore di visitarla prima del 2009 come una perla con il Gran Sasso a farle da felice scenografia.
Qualcosa d’importante è morto. Per tutti. Anche se oggi siamo di memoria corta e ben più aridi di qualche anno fa. Ma senza punti di riferimento, senza quella memoria, c’è poco di cui essere orgogliosi. Orgoglio, già, passione, coraggio, spirito di rivincita. Non per vantarsi, non per giocare a fare i primi della classe, ma per seguire, semplicemente, la propria stessa, insostituibile natura. Per definire il rugbista vero non serve altro.
Christian Marchetti