Non può piovere per sempre e le Zebre, intanto, delocalizzano. Nessun arbitro italiano nel Sei Nazioni 2020

Sabato i bianconeri affronteranno il Brive (Challenge Cup) a Calvisano per “l’impraticabilità del campo dello Stadio Lanfranchi di Parma a causa delle eccezionali precipitazioni delle ultime settimane”. Però nella città emiliana non piove ormai da parecchi giorni. Per qualcuno è una specie di un biscottone, ma se fosse una scelta dettata dalla fretta o da una gestione non ottimale del campo?
Ufficializzati i fischietti del Sei nazioni che scatta a febbraio. Indovinate un po’? Tra arbitri, assistenti e TMO non c’è nemmeno un italiano. E – purtroppo – non è più una notizia

“Sabato 7 dicembre 2019 sarà il Pata Stadium di Calvisano (BS) ad ospitare il 3° turno del girone 4 della coppa europea Challenge Cup tra le Zebre ed e francesi del CA Brive.
La decisione si è resa necessaria data l’impraticabilità del campo dello Stadio Lanfranchi di Parma a causa delle eccezionali precipitazioni delle ultime settimane abbattutasi su tutto il Nord Italia. Nonostante tutti gli sforzi messi in campo da parte dello staff di manutentori, il manto erboso dell’impianto in gestione alla Federazione Italiana Rugby non era nelle condizioni ottimali per garantire il miglior svolgimento di una partita di rugby internazionale, oltre che l’incolumità stessa degli atleti”.
Così le Zebre hanno comunicato nel pomeriggio di martedì 3 dicembre la decisione di giocare sul campo dei bresciani il match europeo contro i transalpini, e lo stesso club bianconero ricorda che Calvisano “è stato designato come campo di riserva nell’accordo di partecipazione alla competizione europea della stagione 2019/20”. La sede alternativa non è una decisione dell’ultima ora.

Che in Emilia abbia piovuto molto è indubbio, però la storia è comunque buffa, diciamo così. Mettiamo in fila un po’ di cose:
– l’ultima partita giocata su quel prato risale al 23 novembre, avversario lo Stade Francais
– nei giorni successivi ha piovuto molto, vero, ma sbirciando tra i vari siti di meteo risulta che a Parma l’ultima giornata di pioggia vera e propria è stata il 27 novembre (tra l’alto, quel giorno, nemmeno molta)
– è vero anche che aveva piovuto, e molto, pure prima della partita contro lo Stade Francais
– la partita tra Zebre e Brive è in programma il 7 dicembre, cioè praticamente 10 giorni o quasi dall’ultimo giorno di precipitazioni, a due settimane dall’ultimo match interno
– la programmazione delle altre discipline sportive non risulta modificata per quegli stessi giorni
– mi dicono che dopo il match contro lo Stade non sono stati tesi i teloni. Ok, ma 10 giorni non bastano per tornare a condizioni ottimali/dignitose?
– dice: non volevamo peggiorare le condizioni del campo. D’accordo. Mi chiedo però come facciano in Galles, Scozia o Irlanda, paesi dove piove pochissimo. Già.

Siccome in ballo ci sono le Zebre e Calvisano la reazione pavloviana di molti è stata quella di un biscottone. Io sono molto più terra-terra e trovo che più prosaicamente i casi sono due: o la decisione di giocare a Brescia è stata presa con un po’ troppa fretta oppure a Parma la gestione materiale del campo non è delle migliori. Non credo esista una terza opzione. Il tutto lascia comunque l’amaro in bocca.

GLI ARBITRI DEL SEI NAZIONI 2020
Annunciati i fischietti, gli assistenti e i TMO del torneo più importante. Guardate lo specchietto. Trovate inglesi, francesi, gallesi, scozzesi (solo uno, ma c’è), neozelandesi, sudafricani, australiani, argentini. Indovinate chi manca? Esattamente. Ancora una volta.

Celtici o non celtici? Il Petrarca mette sul tavolo del rugby italiano il tema “concretezza”

Ph. FOTOVALE – Dal sito ufficiale dell’Argos Petrarca Rugby

Intorno alla richiesta del club veneto di entrare nel Pro14 si sono dette parecchie cose, ma ci sono dei convitati di pietra da affrontare e prendere davvero di petto

Vogliamo dire come stanno le cose senza girarci attorno? La chiacchiera che gira da tempo è che ci sarebbe l’intenzione di spostare le Zebre da Parma a Brescia: la franchigia federale giocherebbe nel capoluogo lombardo e ovviamente nemmeno vi sto a dire quale sarebbe il luogo in cui i bianconeri si allenerebbero quotidianamente. Quando? Tra un anno, massimo due.
Sì, certo, è solo una indiscrezione ma probabilmente chi frequenta club e campi questa cosa l’ha sicuramente già sentita diverse volte. Qui e là ha fatto pure capolino su qualche media ovali, anche se non in maniera palese. Dice: perché non chiedere qualche conferma ufficiale? Perché nessuno la darebbe, i tempi non sono maturi. Chi potrebbe mettere qualche timbro anche solo ufficioso rimane in silenzio.
Anche perché, è questa è la seconda parte della chiacchiera che circola, la cosa sarebbe oggetto di trattative tra alcuni candidati alle prossime elezioni presidenziali. Un tema che è stato messo sul tavolo e su cui alcune parti starebbero cercando una quadra e che farebbe da base per patti di alleanze e/o desistenze. Rumors su trattative ancora aperte, va da sé, la situazione è molto fluida.

Su questa cosa bisogna però essere onesti e smettere di raccontarsela. Dopo diversi anni si può dire senza tema di essere smentiti che il progetto-Parma non è mai decollato, fallito, spostare le Zebre da lì non sarebbe certo uno scandalo. La cittadina emiliana, che pure vanta un ragguardevole background rugbistico ha sempre vissuto i bianconeri come un corpo esterno ed estraneo. Probabilmente il fatto di aver vinto poco (se non pochissimo) non ha mai scaldato davvero gli animi ma non basta a spiegare un atteggiamento che può essere ben riassunto da una frase che diverse persone che abitano in quella zona mi hanno più volte detto in questi anni: “A Parma se c’è il dubbio tra andare a vedere le giovanili del proprio club e una partita di Pro14 o Champions Cup quasi tutti scelgono la prima”. L’Italia (del rugby) dei campanili all’ennesima potenza.
Magari è una battuta, una forzatura, però i risultati alla fine sono quelli che sono…
Ma qui non si vuole discutere del rapporto tra Parma e le Zebre, quanto semplicemente sottolineare che – come dicevo prima – se la FIR decidesse di traslocarle non bisognerebbe poi stupirsi più di tanto. Certo: le Zebre arrivarono a Parma per l’anagrafica di un presidente, spostarle – guarda il caso – per lo stesso motivo da un’altra parte non sarebbe poi il massimo, per usare un gigantesco eufemismo. Sarebbe un conflitto di interessi? Sì, enorme, molto più di quanto avvenuto qualche anno fa. Poi possiamo raccontarcela quanto vogliamo eh. Vedremo che succederà. Però nelle ultime settimane sono successe cose, che hanno cambiato di parecchio le carte in tavola.

Come ben sapete lo scorso settembre il Petrarca ha presentato una richiesta scritta di poter prendere parte al Pro14. Un dossier completo, con tanto di solide garanzie economiche e bancarie. E’ lì, scritto tutto nero su bianco, la federazione non può non tenerne conto e un “no” stavolta andrebbe spiegato con dovizia di particolari.
Perché il club di Padova darebbe una bella boccata d’ossigeno alle casse FIR (solo dio sa quanto ne abbiano bisogno), ha strutture già pronte, campi da gioco e di allenamento già funzionanti. C’è un know-how di base notevole e una lunga storia di “produzione di giocatori”, senza dimenticare l’esistenza di una seconda squadra che potrebbe rivelarsi utilissima. Certo il tutto andrebbe migliorato e potenziato, ma di fatto il Petrarca è già pronto oggi. Davanti a una proposta del genere si possono fare spallucce o cercare di rimandare una decisione a chissà quando? No, sarebbe folle.
Folle anche perché il patron della società veneta Alessandro Banzato è uno di quei personaggi che nell’angusto mondo del rugby italico non irrompono da decenni. Giusto per non nascondersi dietro a un dito: trattasi di imprenditore ricchissimo, dalle enormi disponibilità economiche, a capo di un solido gruppo industriale (Acciaierie Venete) e presidente nazionale dell’associazione di categoria. Uno così dalle nostre parti non lo vedevamo da quando la famiglia Benetton ha deciso di prendere una palla ovale in mano. E spiace dirlo, ma Luciano Benetton, unico vero appassionato di rugby di quella dinastia, non è eterno e le primavere che si è già messo alle spalle non sono esattamente poche.
Chiudete gli occhi e cercate di pensare a un imprenditore, un’azienda o un gruppo economico che ha investito notevoli quantità di soldi nel rugby italiano (no, non parlo della nazionale, quello è un discorso diverso) in maniera costante. Bene, riaprite gli occhi: quanti sono i nomi? Uno: Luciano Benetton. Poi sarà forse la persona più antipatica del mondo (ripeto: forse) e si mette le dita del naso, ma è l’unico che ha investito letteralmente milioni di euro nel nostro amato sport. Per un sacco di anni. Siccome credo che nessuno di noi va in vacanza con lui è l’unica cosa che conta.

Banzato ha quella stessa passione (non è e non sarebbe quindi un novello Silvio Berlusconi, che travolse e abbandonò velocemente il movimento negli anni ’90), talmente forte che fino ad ora è bastata a tenere lontane le lusinghe del calcio, che lo corteggia da un po’. Fino a ora. Tutto questo per dire che come ha scritto Antonio Liviero sul Gazzettino qualche giorno fa, il nostro rugby a uno così dovrebbe stendere un tappeto rosso.
Altro personaggio simile – anche se su scala più ridotta – è Enrico Grassi, attuale proprietario del Valorugby, che da tempo ha fatto capire che un’avventura celtica certo non troverebbe una sua opposizione di principio, ma finora non ha mai fatto nessun passo ufficiale, di nero su bianco non c’è nulla. E quel club non può oggi contare sulle strutture e la tradizione del Petrarca.

Una delle maggiori critiche finora rivolte alla opzione Petrarca è quella della contiguità territoriale con il Benetton Treviso, il nostro rugby diventerebbe definitivamente Veneto-centrico. Beh, non so se ve ne siete accorti, ma praticamente lo è già. Pure da un pezzo.
Primo: è vero, le Zebre giocano in Emilia, ma il Veneto è davvero a uno sputo.
Secondo: Brescia è in Lombardia e si trova a molto meno di uno sputo dal Veneto.
Terzo: 9 squadre su 12 del nostro massimo campionato nazionale sono raccolte in un fazzoletto che comprende Veneto, est della Lombardia e nord dell’Emilia.
Insomma, esattamente di cosa staremmo parlando?
Anche a me piacerebbe vedere una franchigia di stanza a Firenze, Roma, o altrove. Il Sud sarebbe fighissimo, lo dico dal profondo del cuore. Mi piacerebbe davvero tanto. Però oggi quali sono le possibilità che davvero accada? Nulle. Sono anni che ce lo si dice e non si va oltre qualche chiacchiera esplorativa (quando va favvero molto, molto bene), nessun imprenditore si è mai davvero interessato o esposto. Strutture? Da costruire ex-novo, se non addirittura da progettare. Quindi mi ripeto: di cosa staremmo parlando? Il nostro rugby è questo. Non sto dicendo che deve piacerci per forza sta cosa, ma è così. Non si scappa: o un territorio riesce a trovare la forza di proporsi e di sostenere un progetto simile oppure deve pensarci la FIR in tutto e per tutto. Chissà con quali speranze oggettive di successo e in quali tempi. La federazione nicchia? Beh, dai, chi non lo farebbe? Un po’ di onestà intellettuale.
O si riparte da qui, dalle cose concrete, oppure possiamo continuare a raccontarci delle belle favolette su crescita, diffusione ed espansione del movimento. Discipline queste che abbiamo ampiamente praticato e che negli ultimi venti anni e che si continua a fare. Direi che finora è andata benissimo, no?

Ps. Un’alternativa a tutto questo ci sarebbe: rilanciare il nostro massimo campionato nazionale. Ma farlo sul serio per avere un torneo DAVVERO credibile, ma in quel caso dobbiamo darci tempi medio-lunghi. Ma questa è un’altra storia.

L’Halloween al contrario delle Zebre: un lungo anno celtico di sole sconfitte

In questo primo scorcio di stagione celtica le Zebre hanno giocato 6 partite e ne hanno perse altrettante. Due i punti di bonus messi in cascina, 67 punti fatti e 212 incassati per uno differenziale di -145.
Ieri cazzeggiando sui social ho trovato un post di (mi pare di Rugby.it, potrei sbagliarmi, ma non lo ritrovo più) che ricordava che la franchigia federale non vince in Pro14 da oltre un anno solare.
Beh, è vero.
Nella stagione 2018/2019 i bianconeri hanno giocato 21 gare, 18 perse e tre vinte con 19 punti finali in classifica (peggiore performance del torneo: i Southern Kings hanno portato a casa 22 punti e i Newport Dragons 26), preso 640 punti a fronte dei 260 fatti per un complessivo -380. Le Zebre hanno vinto con i Kings alla prima giornata, i Cardiff Blues alla 3a, ultimo sorriso con Edimburgo alla 7a. Poi più nulla. In tre partite il tabellone è rimasto fermo a zero, molti i match in cui si è concesso il punto di bonus offensivo agli avversari.

Ci sono sicuramente delle giustificazioni, degli alibi: gli infortuni, una panchina corta e/o non all’altezza, ingaggio di atleti stranieri che portano poco o nulla, le cavallette, le piaghe bibliche o il cane che ha mangiato il quaderno con i compiti. Quello che volete.
Tutto vero, ma questi sono fatti e numeri inoppugnabili che dovrebbero spingere a farsi qualche domanda, a rivedere cose. Succederà mai? Qualcuno o qualcosa verrà mai messo in discussione oppure vinceranno le solite giustificazioni che si ascoltano e che si leggono anche per altre selezioni che portano una maglia azzurra? Mah…
Intanto mettiamo un cerchio sul calendario attorno al 15 dicembre: in quella data – un anno fa – le Zebre hanno battuto a Parma i russi dell’Enisei in un match di Challenge Cup. E’ stata l’ultima vittoria tout-court dei bianconeri. Speriamo di vederne una prima di quel giorno.

Ps: oggi OnRugby pubblica un reportage sui minutaggi dei permit players di Benetton Treviso e Zebre in questa prima tranche di stagione. Si sottolinea che alcuni giocatori “hanno potuto giocare, quando non impegnati in Pro14, nel Top12, massimo campionato italiano”. Tutto bene, finalmente verrebbe da dire.
Domanda: qualcuno ha visto da qualche parte le regole con cui viene normato il capitolo permit players? Quali siano gli obblighi, i doveri e diritti di atleti e squadre coinvolte? Oppure si sta facendo tutto come al solito, con accordi privati al di fuori di qualsiasi norma (che evidentemente non c’è) e che alla fine non possono che creare figli e figliastri? Ma davvero sta roba sta bene ai club del Top 12? Presidenti, leggete qui: poi non lamentatevi eh…

Ancora parole sui permit-player, ma solo quelle: all’orizzonte non si vedono ancora regole

Stavolta sul tema interviene il tecnico del Beneton Treviso Kieran Crowley. Che dice esattamente le stesse cose di O’Shea e altri. Però dalla FIR non arriva nessuna norma pubblica e condivisa, nemmeno nella Circola Informativa per la prossima stagione pubblicata lo scorso venerdì

Lo so, qualcuno mi piglierà per fissato, ma sta cosa dei permit player mi fa uscire pazzo. AllRugby in edicola questo mese (il numero 137), il direttore del mensile – Gianluca Barca – intervista l’head coach del Benetton Treviso, Kieran Crowley, che fa alcune dichiarazioni che riporto nelle foto pubblicate sotto. Robe del tipo che i ragazzi dell’Accademia non sono pronti per l’alto livello nonostante le buone qualità, che devono allenarsi con le celtiche, che hanno bisogno di minutaggio e che se non possano scendere in campo con quest’ultime devono poter andare a giocare nelle squadre del Top 12, eccetera eccetera. Parole di buon senso. Totale buon senso.
Come quando dice che l’ascensore è un sistema semplice e che “si può fare subito”.
E infatti Benetton e Zebre lo stanno facendo. Però senza regole chiare, trasparenti, condivise da tutte. E si continua così. Chiariamoci: la responsabilità non è certo delle due selezioni celtiche, che hanno fatto di necessità virtù. Il problema non è tanto loro, ma quanto delle società di Top 12, che però sembra che non è che si dannino più di tanto per un sistema che crea figli e figliastri. Boh.
La FIR ha intanto pubblicato venerdì scorso la Circolare Informativa per la stagione 2019/2020. Sono 142 pagine in cui si poteva trovare lo spazio per affrontare il tema. Sarebbe stato già tardi, intendiamoci, ma meglio di niente. Però indovinate un po’? C’è il niente.

Stadi e strutture del rugby in Italia: la teoria dei quanti applicata alla palla ovale

La meccanica e la fisica quantistica si occupano dell’infinitamente piccolo e studiano un mondo all’apparenza bizzarro, che va in modo “altro” rispetto quella che è la nostra comune esperienza quotidiana. E forse non ci crederete, ma il nostro rugby sembra adattarsi bene…

Quando qualche giorno fa ho scritto e pubblicato un articolo relativo al pubblico televisivo della finale del nostro massimo campionato nazionale qualcuno ha sottolineato che dall’alto livello della palla ovale italiana sono tagliate fuori tutte le grandi città, e che quindi inevitabilmente anche la capacità mediatica e attrattiva della palla ovale ne risente. Poca attenzione uguale a poco pubblico, sugli spalti e davanti alla tivvù.
Cosa vera per quanto riguarda le squadre partecipanti ai play-off, un po’ meno per l’intero panorama del Top 12 dove comunque Firenze e Roma sono rappresentate ma dove i risultati in termini di pubblico, capacità di richiamare sponsor e interesse mediatico non è diversa da quella di altre piazze. Purtroppo.

Al di là di questo è comunque indubbio che se si riuscisse a coniugare una buona qualità tecnica del gioco in campo a delle città dai bacini numerosi ed economicamente interessanti il trend stagnante degli ultimi anni potrebbe essere quantomeno smosso, se non invertito, anche se i tempi sarebbero necessariamente medio-lunghi.
Però come dice l’antico adagio popolare chi ha il pane non ha i denti e viceversa. Così a città come – ad esempio – Genova che possono contare su una bella struttura come il Carlini non ci sono (a oggi, si intende) squadre che militano nel Top 12 si “contrappongono” metropoli come Roma che i club a quel livello li hanno ma di stadi adeguati nemmeno l’ombra.

Poi c’è il caso di Milano, che non ha né l’uno né l’altro. Anche se a dire il vero una struttura qualche anno fa era stata trovata e su questa avrebbero dovuto gravitare le Zebre (a proposito, nuovi rumors non confermati ma piuttosto sostenuti le vogliono in procinto di trasferirsi in Lombardia in tempi non lunghissimi. E non a Milano. Vedremo, non è la prima volta che voci così circolano con insistenza).
Forse non lo ricordate ma la giunta Pisapia tra il 2013 e il 2014 aveva approntato un piano per ristrutturare il Velodromo Vigorelli, ai tempi praticamente inutilizzato da tanti anni. L’idea era quella di una struttura polifunzionale in cui avrebbero trovato albergo diverse discipline, dal football americano al rugby, passando chiaramente per il ciclismo.
Qui però cascò l’asino: un comitato ciclistico presentò un ricorso al Ministero dei Beni Culturali che alla fine di una battaglia di carte bollate impose al Comune di Milano di non far partire i lavori perché l’impianto era di valore storico e questo lo rendeva praticamente intoccabile, una specie di Colosseo all’ombra della Madonnina. Quella pista non si poteva nemmeno sfiorare.

Tutto finì quasi un nulla. Dico quasi perché il Vigorelli ha comunque iniziato un lento processo di ristrutturazione ad uso e consumo soprattutto delle due ruote con qualche spazio per il football americano e (pare) nei prossimi mesi per allenamenti di calcio e minirugby.
Come direbbe il poeta il tutto è certamente meglio di un calcio nel culo, ma siamo molto lontani dalle potenzialità di una struttura che viene limitata da quella che non saprei come altro definire che ingerenza ideologica da parte di un comitato che tra il 2014 e oggi ha organizzato un numero tale di eventi che avrebbero potuto tranquillamente alternarsi anche al rugby più importante senza mai pestarsi i piedi. Ma che volete, gli stupidi sono gli inglesi che tirano giù una cattedrale come Wembley per costruire uno stadio ancora più bello e funzionale…

Momento bile passato, tranquilli, ma questo è lo stato dell’arte in Italia. A sud di Roma il processo di desertificazione è in atto da tempo, altrove le dimensioni dell’interesse mediatico si riducono rispetto a quelle che erano erano una ventina di anni fa o comunque non crescono nonostante la valanga di soldi e potenziale interesse creato dall’ingresso nel Sei Nazioni. Da altre parti ci si comporta come se si stesse discutendo di mettere mano alla Cappella Sistina (è il caso anche del Flaminio, proprio nella capitale).
E poi c’è il buffissimo caso caso di un piccolo borgo di 8mila abitanti nel mezzo della Pianura Padana il cui campo di rugby viene attrezzato per ospitare oltre 5mila persone in gran parte con interventi federali. Ripeto: ottomila abitanti, cinquemila posti allo stadio. Roba che seguendo queste proporzoni a Milano dovrebbero fare uno stadio di calcio da un milione di posti. Almeno.
Un borgo che non è particolarmente servito da grandi infrastrutture e si trova solo ad una ottantina di km da quella che oggi può essere considerata l’attrezzatissima Coverciano del rugby italiano (Parma). Ma tranquilli, non è uno spreco, e che siamo un paese bellissimo e spesso non ce lo ricordiamo.