In avanti popolo! – Francia, Inghilterra e Italia: affinità e divergenze tra Leghe di club che ci sono o ancora da venire

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Quello che leggete qui sopra è l’articolo 8 dello Statuto FIR attualmente in vigore. Se domani mattina venisse annunciata la nascita della Lega dei Club la normativa quadro e le regole a cui questa nuova entità si dovrebbe sottoporre sarebbe questa.
Facciamo un salto in Francia. Ieri il neopresidente della federazione francese Bernard Laporte ha rilasciato una intervista a Le Monde. Laporte è stato a lungo capo allenatore del Tolone di quel Mourad Boudjellal che è da sempre tra i più strenui sostenitori della LNR – la Lega dei Club transalpina – e comunque delle prerogative delle società nei confronti di nazionale e federazione. E cosa dice il numero uno del rugby francese eletto a inizio dicembre? “Se è possibile gestire il Top 14 senza la LNR? Sì, certo, la FFR può”. Ma Laporte non si accontenta, e decide di toccarla piano anche sul lato economico: “Tutti i diritti commerciali della Lega appartengono alla FFR. Quando diciamo che la FFR ha un budget di 115 o 120 milioni di euro è falso. Il bilancio è di € 260 milioni perché prende anche i 140 milioni di euro che vengono dalla LNR”.

La dialettica club-federazioni non è delle più semplici e tranquille, non sempre almeno, si tratta di entità con fini e interessi diversi che si trovano a nuotare nello stesso mare: a volte vanno a braccetto, a volte no. In Francia però nel Comité Directeur della FFR, paragonabile al nostro Consiglio Federale, ci sono tre membri della LNR. LNR che oltre a gestire il TOP 14 e il Pro D2 sbriga anche i compiti della giustizia sportiva.
E in Inghilterra? OltreManica da una parte c’è la RFU, dall’altra la Premiership Rugby Limited che rappresenta i club, totalmente esterna alla federazione. La PRL gestisce il campionato ma non la giustizia sportiva.
Francia e Inghilterra perciò differiscono sotto alcuni aspetti ma in entrambi i casi le locali Leghe di Club sono istituzionalmente ed economicamente autonome e hanno vari strumenti per farsi sentire. Non solo, siedono anche nei posti giusti per farlo: sia LNR che PRL hanno una poltrona nel board della EPCR (assieme alle regions gallesi riunite sotto la sigla Pro Rugby Wales), l’ente che organizza e gestisce le Champions e Challenge Cup.

In Italia che panorama avremmo? Non semplice dirlo. Lo Statuto FIR parla di “funzioni propositive e consultive”, ma oggi come oggi i club non hanno un posto in Consiglio Federale a loro riservato. Sì, d’accordo, i delegati delle società votano i consiglieri federali, ma non è la stessa cosa.
Come ho scritto e detto più volte sono personalmente convinto dell’utilità di una simile organizzazione nel nostro movimento, che il fatto che la LIRE sia implosa meno di 10 anni fa (non che siano mancate anche delle spinte esterne perché tutta la costruzione crollasse) non deve frenare dal pensare del rimetterla in piedi. Però le cose vanno fatte bene, con un po’ di sale in zucca se si vuole che poi funzionino a dovere.
Per le dinamiche politiche del nostro Paese – espressione da intendere in senso lato – e per la nostra prassi istituzionale una Lega realmente autonoma e propositiva certo non farebbe felice la FIR, abituata a gestire il movimento nella sua pressoché totale complessità. Frizioni non mancherebbero.
Da parte loro i club devono trovare una quadra istituzionale, unità d’intenti, una prospettiva davvero comune e un’autonomia economica che non sembra affatto facile raggiungere. Soprattutto una capacità manageriale che oggi latita. Ma grandi alternative non ce ne sono, a meno che non si voglia il solito pastrocchio all’italiana che non servirebbe a nulla.In quel caso, meglio lo status quo.

PS: domani il tema della Lega dei Club verrà toccato assieme ad altre problematiche in una intervista fatta dal Grillotalpa a un importante rappresentante del rugby italiano.

Intervista a Alessandro Vaccari: un Calvisano da corsa, Lega Club al via la prossima stagione. E poi le Zebre: “Non qui”

Calvisano ha chiuso il girone d’andata come meglio non poteva: battendo il Petrarca di Cavinato al termine di una partita molto combattuta. E così i bresciani arrivano al giro di boa del massimo campionato italiano con ben 43 punti in classifica, 9 vittorie in altrettante partite e solo due punti di bonus persi lungo la strada. Numeri che da soli “giustificano” una intervista al presidente del club, se poi Alessandro Vaccari parla anche del lavoro di Massimo Brunello, di vivaio (rispondendo anche a una delle critiche “storiche” che vien fatta a quella società, ovvero quella di produrre pochi giocatori davvero suoi…), di Lega di Club e di un ipotetico futuro celtico, beh il tutto aumenta di interesse.
Una intervista di cui rendo disponibile l’audio, che a volte non conta solo quello che si dice, ma anche il come. A voi.

IN avanti popolo! – Biagi, Guidi e le Zebre: beghe che hanno un senso o no?

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“IN avanti popolo!” è una nuova rubrica di questo blog. Trattasi di corsivi piuttosto brevi sul fatto di cronaca più importante della settimana. E stavolta non posso esimermi dal parlare di Zebre. Partiamo.

“…al presidente Pagliarini non sono piaciute alcune osservazioni di George Biagi sul delicato momento societario”. Così la Gazzetta dello Sport di sabato 21 gennaio commenta il cambio di capitano in casa Zebre, con George Biagi – comunque in campo da titolare contro gli Wasps in Champions Cup – che passa la fascia a Carlo Canna.
Settimana complicata a Parma: lunedì la risoluzione consensuale del contratto con l’head coach Gianluca Guidi, l’improvviso cambio di capitano, l’ormai certo addio di Festuccia (tornerà a Londra dopo solo 9 presenze e un totale di 185 minuti giocati nel torneo celtico). Sullo sfondo la totale incertezza sul futuro della franchigia. 
Qualcuno dice che Guidi e la squadra avevano ormai rapporti difficili. Può essere. Quello che è certo però è che fin dalla scorsa estate e in più occasioni il tecnico ha sempre difeso i giocatori contestando anche pubblicamente alcune scelte societarie e se c’è una spaccatura profonda in seno alle Zebre (e diamine se c’è, ma da tempo) è quella tra dirigenti e area tecnica: alla presentazione milanese del derby celtico di Pro12 il Benetton Treviso era al gran completo dal presidente Zatta in giù, per le Zebre c’erano il team manager De Rossi e l’addetto stampa. Stop. Dirigenti assenti. Avranno avuto cose più importanti da fare, probabilmente.

Però facciamo un giochino e formuliamo l’ipotesi: la presenza di Guidi era diventata nociva per i giocatori e si voleva salvaguardare il clima nella squadra. Si trova un accordo e lo si manda via. Bene, la mossa di togliere la fascia da capitano a Biagi in quale strategia si inscrive? Non sono Sun Tzu, ma direi non in quella di tenere unito e sereno lo spogliatoio. Le due cose fanno abbastanza a pugni tra loro. Biagi è un giocatore esperto, stimato da tutti fuori e dentro il campo, persona dotata di grande intelligenza. Uno che se decide di dire in una intervista certe cose è perché ci ha pensato un milione di volte. Si mormora che possa trasferirsi a Treviso in estate. Forse paga pure questo. Forse.
Comunque il presidente Pagliarini, che non ha gradito le parole di Biagi, non più tardi di un paio di settimane fa ha detto nel corso di una conferenza stampa che le Zebre hanno come obiettivo futuro quello di vincere il Guinness PRO12 e che serve un milione di euro per poter terminare la stagione in corso e salvarsi dal tracollo finanziario. Il tutto nell’arco di una manciata di secondi. Ecco.

Italia e Inghilterra, i problemi di Emergenti e Saxons avvicinano (un po’) due mondi lontani

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ph. Fotosportit/FIR

L’Inghilterra è – ovalmente parlando – un’isola felice. Molto felice. Con i dovuti e inevitabili saliscendi lo è sempre stata ma da quando è arrivato Eddie Jones il sorriso sulle labbra non manca mai: il tecnico nato in Tasmania ha preso in mano una nazionale uscita con le ossa rotte dal Mondiale giocato in casa tra il settembre e l’ottobre 2015 e ha infilato una ininterrotta serie di vittorie per tutto il 2016. Sei Nazioni con Grande Slam, un trionfale tour in Australia e dei test-match autunnali senza macchie hanno regalato a Ovalia una Inghilterra di prim’ordine e con le idee molto chiare in testa. Oggi probabilmente è l’unica squadra in grado di mettere in difficoltà gli All Blacks su una distanza superiore ai singoli 80 minuti.

Ma anche al di là della Manica i problemi non mancano, magari sono di abbondanza però ci sono. Chi ha il dente particolarmente avvelenato è Jon Callard. L’ex estremo del Bath anni ’90 che fino a giugno scorso è stato il Performance Coach della RFU in una intervista rilasciata all’ultimo numero di The Rugby Paper non le manda a dire alla sua stessa federazione e se la prende per la mancata programmazione di gare per i Saxons, a partire dal periodo del Sei Nazioni: “Il tour che abbiamo fatto questa estate in Sudafrica (due vittorie in altrettante partite, ndr) è stato di primissimo livello, il programma ha bisogno di continuare ed è davvero un mistero che alte partite non siano state ancora fissate. Non possiamo dormire sugli allori. La nazionale maggiore sta facendo grandi cose con Eddie Jones e il suo staff ma noi dobbiamo assicurare un percorso ai ragazzi che escono dall’U20 e deve esserci sempre un programma in atto per i nostri migliori giocatori”.
Poi fa anche un esempio: “Charlie Ewels (seconda linea del Bath, ndr) ha fatto un ottimo tour con i Saxons a giugno e a novembre è stato chiamato nella nazionale maggiore ma ora dove sono le opportunità per questi giovani di giocare ad alto livello? Ragazzi come Joe Marchant, Will Evans, Harry Mallinder, Jack Walker e Jonny Williams hanno bisogno di opportunità. Spero si tratti solo di un contrattempo ma credo che in Inghilterra ci siano abbastanza giovani di qualità per organizzare un tour estivo nonostante ci siano i British & Irish Lions e porterei i Saxons a giocare in Argentina. Non credo che per la RFU i soldi possano essere un problema…”.

I Saxons sono la “nazionale A” della federazione inglese e sono la squadra che lega i giocatori alla maglia bianca con la rosa rossa sul petto, cosa che invece non fa la U20. Anche in un mondo ricco e sviluppato come quello dell’Inghilterra, dove ragazzi di 20-21 anni trovano minutaggi importanti nelle squadri di Premiership e dove le Accademie dei club sfornano talenti in grande quantità, esistono perciò dei problemi di spazi.
Da noi, come è noto, la situazione è un po’ diversa: il numero dei giocatori è molto più basso (ma l’Inghilterra, lo ricordiamo è il movimento più ricco di giocatori di tutto il mondo: un paragone su questo piano non può che essere impietoso praticamente per chiunque), la maturazione arriva con un po’ – troppi – di anni di ritardo e se è vero che l’Eccellenza fornisce discreti spazi per poter emergere va pure detto che il livello complessivo del nostro massimo campionato è troppo basso e il salto per chi riesce ad entrare nella rosa di una delle due squadre celtiche è davvero notevole (come spiega bene Alessandro Zanni nell’intervista che mi ha concesso e che ho pubblicato ieri).

Negli ultimi mesi alla nostra Nazionale Emergenti è stata data una identità e un compito un po’ più preciso che non in passato. Carlo Orlandi, Responsabile Tecnico della formazione in questione, in una intervista a OnRugby la scorsa estate diceva che “La volontà è quella di dare la possibilità agli atleti di essere coinvolti ad un livello più alto e ad un ritmo a cui non tutti sono abituati. Tra i 19 e i 23 anni dobbiamo trovare sinergie e creare momenti”.
Dalle pagine di Rugbymeet fa eco il presidente FIR Alfredo Gavazzi che sottolinea come “lo staff della nazionale maggiore si occuperà anche della Emergenti, il concetto è che non ci sono camere stagne ma camere intercomunicanti”.
Per questa selezione, che un po’ troppo a lungo è rimasta in una sorta di limbo assimilabile all’amletico “ma io da grande cosa voglio fare?”, è stato pensato un calendario un più fitto. Così lo scorso autunno la nostra federazione e quella scozzese hanno dato vita all’Italian-Scottish Challenge, che come recita il comunicato FIR è “una nuova serie di sfide mirate ad accrescere l’esperienza a livello internazionale dei più interessanti prospetti delle due federazioni”.

Due gare a novembre già giocate e altrettante ancora da confermare in via ufficiale (ma che si dovrebbero giocare il 31 gennaio la prima e nei primi 10 giorni di febbraio la seconda) sempre contro gli Heriot’s Scotland. Poi, a giugno, la tradizionale Nations Cup.
Bene, masi deve e si può fare di più, bisogna incrementare quantitativamente e qualitativamente le partite per questi ragazzi. La Nations Cup è oggettivamente l’unico impegno davvero di livello che l’Emergenti affronta nel corso di un intero anno. Le frequentissime pause del Campionato d’Eccellenza rendono possibile l’organizzazione di match lungo un po’ tutta la stagione e trovare avversari di rango superiore, beh, certo male non farebbe, magari andando a pescare anche tra quelle nazionali di Tier 2 che smaniano di giocare contro squadre che arrivano da paesi rugbisticamente più evoluti: una Georgia-Emergenti? E perché no…

Alessandro Zanni, 7 anni da senatore celtico: “Il Pro12 è la strada giusta, nonostante tutto”

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ph. Marco Sartori

A fine mese Alessandro Zanni compirà 33 anni. E’ al Benetton Treviso dal 2009 e forse mi sbaglio, ma si tratta del senatore italiano per quanto riguarda l’avventura celtica: presente e protagonista (64 partite finora giocate, 6 mete realizzate) sin dalla prima edizione dell’allora Celtic League.
Per riaprire in maniera ufficiale questo blog ho scelto di intervistarlo perché la presenza o meno delle squadre italiane nella Guinness Pro12 è determinante per l’intero movimento. Per motivi brutalmente economici, di struttura e di filiera: esserci o non esserci in quel torneo cambia profondamente la nostra natura, più di qualsiasi altra cosa.
Io sono un laico dubbioso sulla partecipazione di Benetton e Zebre o di qualunque altra nostra formazione al Pro12. Non sono mai stato un detrattore ma nemmeno un entusiasta. A rigor di logica quella di partecipare a un torneo con le più forti compagini scozzesi, gallesi e irlandesi non sembra avere grosse controindicazioni ma quello che è mancato dalle nostre parti (a mio personalissimo parere, s’intende) è stata una serie riflessione dopo 2/3 stagioni, un attento esame della situazione che poi non è stato fatto nemmeno negli anni a seguire: l’impressione è che chi avrebbe dovuto non si è fatto grandi domande e si è “accontentato” di rimanere dove si trovava. E forse nemmeno la stampa specializzata – sottoscritto compreso – lo ha spinto più di tanto. Perché quello celtico è un salotto indubbiamente importante, una specie di scala ridotta di quello del Sei Nazioni, ma forse forse…
Non ho certezze in merito, intendiamoci, ma qualche domanda forse andava messa sul tavolo. Tipo: cosa ci porta questo torneo? Cosa ci toglie? I tanti, tantissimi, soldi investiti hanno dato un ritorno adeguato sotto i più diversi aspetti? Siamo davvero sicuri che un campionato italiano di livello non possa dare risultati simili e magari nel tempo anche superiori? Che una Eccellenza con un livello di gioco come quello di un po’ di anni fa non porterebbe anche a una visibilità mediatica (e di conseguenza: maggiori sponsor) superiore a quella che finora ha dato il Pro12?
Domande a cui Alessandro Zanni può rispondere solo parzialmente, non è compito suo farlo, ma con lui ho provato a tracciare un bilancio di questa esperienza giunta ormai alla sua settima stagione. E il capitano del Benetton Treviso sembra avere idee molto chiare in merito.

Sei presente e protagonista dell’avventura celtica sin dall’inizio. Anzi, probabilmente sei il senatore italiano in quello che oggi è il Pro12. La domanda è secca: questa esperienza è servita e serve ancora?
Sì. E’ servita: ha senza dubbio migliorato diversi giocatori che magari in un campionato come quello che è oggi quello dell’Eccellenza avrebbero avuto una crescita molto più limitata. Il livello del Pro12 a livello tecnico e fisico è indubbiamente più alto. Se mi chiedi se in questi anni ho visto dei cambiamenti la risposta non può essere che sì, sicuramente. Certo non è facile perché come miglioriamo e cresciamo noi lo stesso fanno anche i nostri avversari che già partono da un livello più alto.

C’è qualche “però”?
Siamo cresciuti, ma forse non nel modo che magari ci si attendeva: probabilmente ci si aspettava che dopo tutti questi anni Benetton e Zebre potessero lottare per il vertice o comunque giocare per vincere più partite. Finora è successo solo una volta, ormai 4 anni fa, quando qui a Treviso abbiamo vinto 10 gare, ce la siamo giocata davvero con tutti ma rimanendo comunque lontano dalle parti alte della classifica.
Non mi nascondo, possiamo e dobbiamo fare meglio ma il Pro12 è indispensabile, ti confronti ogni settimana con le migliori realtà e i giocatori più forti di Irlanda, Scozia e Galles: alla fine per la crescita del movimento è veramente importante, nonostante le tante sconfitte.

Quando siamo entrati nell’allora Celtic League c’è stata una crescita fisica immediata e innegabile: prima le partite della nostra nazionale duravano 40/60 minuti, poi andavamo in apnea, questa cosa ce la siamo messa alle spalle nel giro di qualche mese. E’ però pur vero che dopo dei passi avanti anche sul fronte dei risultati nelle prime edizioni poi ci siamo fermati: Treviso nei primi anni non è mai arrivata ultima o penultima, dopo quel settimo posto però la storia è purtroppo cambiata. E va detto che il Benetton che è arrivato ad annusare, diciamo così, le posizioni di testa del Pro12 era “figlio” di quel campionato italiano di cui abbiamo parlato poco fa...
E’ vero, però è stato anche un momento in cui diversi aspetti positivi sono andati a sommarsi: un gruppo di giocatori importanti e di livello, un tecnico come Franco Smith capace di guidare e motivare quegli stessi atleti, ci siamo trovati a giocare nel contesto giusto. Quel gruppo era forte sotto tanti aspetti, un gruppo – è vero quello che dici – partito dal campionato italiano e giunto alla sua maturazione e in cui c’erano molti dei giocatori migliori del nostro movimento.
Non va nemmeno sottovalutato il fattore novità che c’è stato nelle prime edizioni che ha spinto un po’ tutto l’ambiente a una crescita importante. C’era l’entusiasmo di iniziare una nuova esperienza.

E’ però innegabile che questa crescita a un certo punto si è fermata. Anche a Treviso dopo quel settimo posto lo stesso ambiente ha perso serenità: prima la vicenda Franco smith, gli scontri con la federazione, l’addio di Vittorio Munari, quel 9 febbraio 2014 quando il club annunciava il suo addio alla Celtic poco dopo la fine di Francia-Italia del Sei Nazioni. Si è un po’ rotto tutto.
Quell’anno avevamo vinto 10 partite, non è stato certo un caso. Anche quando abbiamo perso spesso abbiamo giocato bene e questo si era riflesso sulle prestazioni della nazionale che ha giocato quello che è stato forse il suo miglior Sei Nazioni di sempre in termini di risultati e di qualità del gioco. Poi, sì, qualcosa si è rotto e il processo di rinnovamento è stato molto difficile, i risultati non sono più arrivati fino alla scorsa stagione con il nostro ultimo posto in Pro12.
Questo però non va a toccare quella che è l’importanza di avere due squadre italiane in quella competizione, nonostante tutte le difficoltà. In questi anni ho visto giovani giocatori maturare comunque più rapidamente rispetto a quello che succedeva prima: non succede sempre, ci sono fattori personali che incidono, ma tendenzialmente oggi crescono prima di quanto non sia capitato anche a me.

Si può dire che il gruppo di cui tu facevi parte e di cui abbiamo parlato prima era figlio di un campionato italiano di livello maggiore e che quindi ha potuto beneficiare al meglio del salto di qualità offerto della Celtic mentre oggi con una Eccellenza di livello più basso è tutto più complicato perché il gap tra le due competizioni è cresciuto rispetto al 2010?
Sì, direi proprio di sì. Passare dall’Eccellenza al Pro12 è davvero un passo lungo, è sicuramente più complesso che non averlo fatto dall’allora Top 10 italiana alla Celtic league. Va pure detto che i buget del nostro massimo campionato oggi non sono certo quelli su cui Calvisano o la stessa Treviso potevano contare qualche anno fa e che la qualità dei giocatori stranieri era più elevata: allora c’era gente come Alesana Tuilagi, Sireli Bobo, Brendan Williams…
Oggi il percorso dall’Eccellenza al Pro12 è generalmente più lungo, anche se c’è chi già alla sua prima stagione sembra soffrire meno. Qui a Treviso posso ad esempio farti il nome di Luca Sperandio, che deve ancora migliorare molto ma ci ha messo davvero poco ad adattarsi.

Torniamo a quel 9 febbraio 2014. Nel comunicato con cui il Benetton Treviso faceva sapere che non c’erano le condizioni per il rinnovo della partecipazione al Pro12 si parlava di mancanza di progettualità. Si può dire che ancora oggi quella è un po’ la vera tara di questa avventura? Ovvero che siamo in quel torneo non perché ci si creda davvero poi tanto ma perché alla fine – vista la situazione data – oggi sembra essere l’unica opzione. Non siamo per nulla convinti della cosa. Forse.
Bisogna avere pazienza. Lo so che è un ritornello che sentiamo dire spesso e da un po’ di anni, ma è così. Sicuramente avremmo potuto ambire a risultati migliori, questo è indubbio: le squadre italiane non sono finora mai riuscite ad essere completamente competitive, ovvero giocare con alto profilo per tutta la stagione e aspirare ai primi posti.
Però come ci siamo evoluti noi, anche se a piccoli passi, lo stesso hanno fatto anche le altre squadre che già erano più strutturate e attrezzate. Che avevano e hanno una tradizione che noi non abbiamo. Loro hanno una progettualità rodata, noi no.

Questo è indubbio. Spesso viene fatto l’esempio del Connacht come quello della “Cenerentola” che è diventata grande, che è vero ma si dimentica forse di sottolineare che la squadra di Galway è cresciuta in un ambiente che è più attrezzato e performante di quanto non sia il nostro, un ambiente che sa da tempo che cosa significa essere nell’alto livello…
Infatti. Non va dimenticato che quello è un ambiente che in generale conosce e respira il rugby, da noi non è così. E’ un incontro di vari fattori quello che ti porta ad avere risultati, gli aspetti sono davvero tanti: ci devono essere i giocatori, ci deve essere uno staff all’altezza, il management…
Io penso che siamo andando nella giusta direzione. Noi a Treviso abbiamo avuto difficoltà ma già quest’anno sotto l’aspetto tecnico siamo cresciuti molto, la società si è strutturata e si è articolata in maniera interessante. Abbiamo allenatori giovani ma con grandi competenze e un vissuto importante. Parlo di gente come Galon, Bortolami e Ongaro che sono comunque ai primi passi e anche loro come noi devono crescere. Serve tempo e pazienza, ma la strada è giusta. Poi è vero che i risultati latitano, questo oggi è innegabile.

Parlando di Treviso non si può sottolineare comunque la difficoltà di riprendere una corsa dopo quello che è successo due o tre anni fa. La nuova struttura tecnica necessita di tempo per ottenere risultati, lo stesso Pat Lam a Connacht ha raccolto i frutti alla sua terza stagione, non prima.
Sì, abbiamo cambiato sempre tanti giocatori. Tre anni fa abbiamo praticamente smobilitato, con i nostri atleti più importanti che sono andati all’estero, sono cambiati gli stranieri… Si è fatto un lavoro di prospettiva e oggi abbiamo qui un gruppo di ventenni che fanno ben sperare per il futuro. Bisogna lavorare su quello e farli crescere in maniera tale che possano arrivare a giocare per traguardi più importanti.

Quando parli off record con chi ha preso parte finora all’avventura celtica c’è un argomento che salta sempre fuori ma che non conquista mai le prime pagine dei giornali e dei media: parlo della logistica e delle trasferte. Cavinato, Casellato, Guidi, De Rossi, Munari… tutti dicono la stessa cosa: le trasferte per Zebre e Benetton sono lunghe, complicate e non consentono di allenarsi adeguatamente. Le conseguenze non possono poi non vedersi in campo
E’ vero. Sembra un dettaglio ma non è così. Le nostre trasferte, derby italiano a parte sono tutte con l’aereo, spesso con aeroporti o scali non vicini ai luoghi delle partite. Sono lunghe e faticose. Per le altre squadre non è così: Galles, Scozia e Irlanda sono comunque più vicine tra loro, i tempi di volo ridotti. Le regions irlandesi e gallesi possono contare su un buon numero di trasferte che affrontano in bus. Il più delle volte quando i nostri avversari vengono in Italia rimangono tutta la settimana per affrontare in una volta sola le nostre due squadre, a noi capita raramente. E se anche non succede loro hanno due trasferte lunghe, noi una decina. Le assorbono molto meglio di quanto non possiamo fare noi, i viaggi compromettono la preparazione, non possiamo allenarci adeguatamente. Da un punto di vista logistico è difficile, nonostante l’ampiezza delle rose.

C’è qualcosa che non ti piace nel Pro12 e che tu cambieresti?
Non esiste la formula magica, la struttura non la cambierei. Ci sono dettagli da sistemare o che sono migliorabili, come appunto quello delle trasferte, ma mi ripeto: la strada è quella giusta.

La nazionale: l’arrivo di O’Shea ha decisamente cambiato l’atmosfera ma questa volta non ci si può fermare a questo perché ad essere rivoluzionata è stata la struttura, oggi molto più simile a quella dei nostri avversari. Con Mallett e Brunel si era detto che si sarebbero occupati anche del coordinamento con le celtiche ma la cosa è rimasta sulla carta, oggi non è così: il ct azzurro e i suoi collaboratori sono in costante contatto con Benetton e Zebre e la sua presenza alla Ghirada non fa più notizia.
E’ cambiato molto, indubbio. C’è un’atmosfera di maggiore professionalità, di alto livello. O’Shea sa molto bene come deve essere costruita una squadra e uno staff per poter performare. Bisogna comunque avere pazienza perché è arrivato da meno di 8 mesi e ogni realtà ha le sue caratteristiche, l’Italia non è certo l’Inghilterra ma il ct lo sa benissimo. Dopo un buon tour estivo e la vittoria sul Sudafrica arriva un Sei Nazioni importante, sarà un bel banco di prova: ci sono tutte le prospettive perché l’Italia possa far bene. Le competenze per far crescere la nostra nazionale le abbiamo

Chiudiamo con le Zebre. A Treviso avete vissuto un momento molto difficile tre anni fa, i bianconeri oggi non sono certi del loro futuro. Le situazioni sono diverse – se Treviso avesse lasciato il Pro12 sarebbe comunque andata in Eccellenza, a Parma questa opzione non c’è e in più la struttura dirigenziale biancoverde è sicuramente più solida – ma cosa ti senti di consigliare ai tuoi colleghi e ai tuoi compagni di nazionale che vivono un momento così complicato?
Le situazioni sono diverse ma per un giocatore è comunque difficile giocare quando non sei sereno. Lo so che in questi momenti è più facile a dirsi che a farsi, ma il consiglio che mi sento di dare è di stare il più sereni e tranquilli possibile. Devono rimanere concentrati sul campo. E’ chiaro che quando tutte le condizioni non ti sono favorevoli è complicato riuscire ad essere performanti ma George Biagi è un ottimo capitano e sono sicuro che saprà tenere il gruppo compatto. Però so che la situazione non è per niente facile.