
Non è il primo ct che lascia e/o viene cacciato e non sarà l’ultimo, ma era il primo a cui era stato dato un chiaro mandato che abbracciava ambiti più larghi della sola panchina azzurra. Missione fallita. Ma non è l’unico responsabile e le sue dimissioni ci dicono tanto sulla “impermeabilità” italiana
Se uno guarda alla lunga, lunghissima, trafila di sconfitte e risultati negativi messi assieme dalla nostra nazionale più importante negli ultimi 4 anni le dimissioni di Conor O’Shea da ct azzurro non stupiscono. Perché al di là delle singole opinioni è indubbio che i risultati del campo registrano un pesantissimo segno meno e la storica vittoria sul Sudafrica per quanto bella e importante va messa nella scatola che gli compete, ovvero quella degli exploit estemporanei. Lo dicono i numeri di 4 anni.
Conor O’Shea, che uomo di campo in realtà non è mai stato, non è riuscito a incidere e a lasciare il segno che avrebbe voluto. La sua ormai celebre frase sul voler dar vita al miglior mondiale di sempre per una squadra italiana si è rivelata un boomerang, e questo poteva/doveva metterlo in conto.
Ma Conor O’Shea non lascia per quelle parole, è evidente. Lascia – in ordine sparso – perché la famiglia ha avuto problemi di ambientamento, perché la RFU gli ha offerto un ruolo decisamente adatto alle sue caratteristiche, perché i risultati non sono quelli attesi. Lascia perché con la FIR, e con il suo presidente in primis, qualcosa si è rotto da tempo ed è chiaro che il rapporto fiduciario degli inizi non c’era più. Perché se da un lato è normale e pure legittimo che una federazione si tenga informata sul futuro di alcuni dei più importanti tecnici del mondo, lo è un po’ meno che il numero uno della FIR non abbia nessun problema a confermarlo pubblicamente quando la scadenza contrattuale del ct in carica è ancora piuttosto lontana.
Chiaramente si sono subito create le due tifoserie, quella pro-Conor che la FIR è brutta e cattiva a prescindere e quella a favore della federazione che quel britannico lì non mi ha mai convinto e guarda un po’ se non doveva dimettersi due mesi prima del Sei Nazioni…
D’altronde siamo in Italia, tutto prima o poi va a finire in una scaramuccia tra ultras.
Ma al di là di tutti i singoli pensieri una cosa va detta: Conor O’ Shea era diverso. Non tanto perché fosse più preparato, o più elegante o che. No. Era diverso perché è stato il primo ct ad avere un mandato chiaro per mettere mano alla struttura del movimento assieme al connazionale Aboud. Era scritto anche nel contratto? Non lo sappiamo, ma che fosse così era chiaro e le dichiarazioni dei diretti interessati andavano in quella direzione.
Un mandato che non avevano avuto Nick Mallett (arrivato prima della rivoluzione celtica) e Jacques Brunel. Anzi, il tecnico francese venne subito bollato dal neopresidente Gavazzi con un inequivocabile “l’ho trovato, non l’ho scelto io”.
La stessa formazione e le esperienze precedenti di Conor O’Shea lo “disegnavano” più come un naturale Director of Rugby. Buona parte dell’avventura italica dell’irlandese si è giocata su questa dicotomia, o forse sarebbe meglio chiamarla ambiguità perché al di là delle dichiarazioni di turno di cui sopra non è mai stata chiarita del tutto fino in fondo nella sua pratica quotidiana.
Però un DoR ha bisogno di una certa libertà di movimento ed è inutile nascondersi dietro a un dito, Alfredo Gavazzi non è uomo che ama le libertà altrui. Sia chiaro: non sto parlando in senso assoluto, ma di chi lavora con lui. Non tiriamo in ballo i massimi sistemi, qui si parla solo di rugby.
Gavazzi è un accentratore, una persona che tende a mettere quante più cose sotto il suo controllo diretto. Non c’è nessuna forma di sarcasmo o di critica in queste mie parole, credo sia semplicemente un qualcosa di cui prendere atto, nulla di più.
Non voglio dare nessuna patente di responsabilità per l’addio di O’Shea, la verità la conoscono solo i diretti interessati e se pure fosse pubblica non cambierebbe di una virgola la situazione e la fotografia generale.
Su queste pagine non ho mai nascosto che la cosa migliore per il nostro movimento fosse una conferma di Conor, magari con un ruolo diverso e più adatto alle sue caratteristiche. Insomma, con un uomo di campo accanto a lui. Pace, è andata diversamente e non è uno scandalo.
Mi preme solo sottolineare, per l’ennesima volta, che in federazione ci sono nel settore tecnico dei dirigenti che continuano a dormire sonni tranquilli nonostante quei risultati risultati probabilmente fatali all’irlandese. Da venti anni eh, mica da quattro. Gente che ha visto passare Kirwan, Berbizier, Mallett, Brunel e ora O’Shea. Evidentemente gli unici e soli responsabili.
Per quanto mi riguarda le dimissioni del ct sono una sconfitta pesante per chi ritiene necessari dei cambiamenti di rotta, prima ancora che di persone. Però che volete, nonostante tutto abbiamo appena terminato il nostro miglior Mondiale di sempre, ha detto qualcuno solo qualche giorno fa, e forse io mi sto sbagliando su tutta la linea. Quindi ci attende un grande e luminoso futuro. Come quello negli anni passati (sarcasmo a tonnellate).
Che poi io me le ricordo bene quelle parole di O’Shea di marzo 2017, quelle che forse meglio spiegano quello che è successo. E quello che non è successo.
“Sono un positivo, vedo sempre il bicchiere mezzo pieno. Ma non sono uno stupido, non sto qui a prendere tempo. Ho fiducia in questo gruppo, resto convinto che possiamo diventare un’ottima squadra. (…) Le decisioni che dovremo prendere faranno male a qualcuno, ma Irlanda, Galles, Scozia hanno fatto scelte difficili (…) Qualcuno dovrà mettere il proprio ego da parte. Vogliamo cambiare molte cose e ci sarà gente che ci resterà male, ma i cambiamenti non possono essere indolore. Ripeto, non si pensi al proprio ego”.
Mi sa che ha vinto l’impermeabilità. Ciao Conor, buona fortuna