Italia dentro la Commissione Bilancio ma fuori dal Comitato Esecutivo: World Rugby, è vera gloria?

La FIR celebra l’ingresso del presidente Gavazzi in un ufficio importante ma il nostro movimento non ha più un suo rappresentante nel vero cuore di World Rugby

Il campo è importante però quello che avviene nelle più o meno segrete stanze di World Rugby non è poi così da meno. Le due cose sono poi parecchio collegate, nel senso che più vinci sul campo più il tuo peso specifico nelle decisioni politiche aumenta. Magari ci metti un po’ di tempo, però è inevitabile che se il tuo movimento cresce e al contempo si stabilizza (traduciamo: la sua crescita è costante, non figlia di un paio di exploit) diventi più importante anche in campo dirigenziale.
L’Italia nel 2017 come sta? Il rugby è un mondo in cui i paesi che davvero decidono sono pochi: le home unions britanniche, la Francia e le tre grandi dell’emisfero sud. A queste negli ultimi anni si sono aggiunte Argentina e Italia che nel novembre del 2015 hanno ottenuto un potere di voto identico a quello delle altre federazioni fondatrici (due membri e tre voti). Un riconoscimento importante ma allo stesso tempo inevitabile per una partecipante al Sei Nazioni (da 15 anni al momento di quella apertura) e per una squadra che dal 2012 ha allargato il Tri-Nations e che nel 2007 è arrivata sul podio al Mondiale.

Nei giorni scorsi la FIR ha comunicato che “Alfredo Gavazzi, Presidente della Federazione Italiana Rugby, è stato inserito dal Consiglio World Rugby all’interno della Commissione Bilancio dell’organo di governo del rugby internazionale, riunitosi a Kyoto (Giappone) in vista del sorteggio dei gironi della Rugby World Cup 2019″. Nella nota si parla di “incremento del peso specifico del rugby italiano all’interno dei consessi internazionali”, ma è davvero così?
E’ chiaro che nei comunicati si tende a ingigantire i meriti dell’ente che li produce, quale che sia, ché ognuno vuole vendere al meglio le sue pentole, però si può parlare di incremento solo se aumenti la tua presenza o se migliori la sua qualità, altrimenti è un indorare la pillola, ad andare bene. O un vedere le cose in maniera eccessivamente ottimistica, toh. Perché è vero che Gavazzi prenderà parte ai lavori della  Commissione Bilancio (fermi, non fate battutine, che vi vedo…) ma è altrettanto vero che dopo che per due legislature Giancarlo Dondi si è seduto nell’Executive Commitee noi non abbiamo più un nostro rappresentante nel vero cuore pulsante di World Rugby. Il risultato algebrico delle due cose è negativo.

Torniamo quindi alla domanda iniziale: l’Italia nel 2017 come sta negli equilibri della massima associazione di Ovalia? Non male, ma rimaniamo di gran lunga i meno importanti tra quelli che contano. L’Argentina è in fortissima ascesa con un suo uomo che ancora giovanissimo (Pichot non ha ancora 43 anni) è già vicepresidente e che avrà una facilmente prevedibile luminosisima carriera politica davanti a sé. Spero di sbagliarmi, ma sono pronto a scommettere che si giocherà una finale mondiale prima a Buenos Aires che non a Roma.
L’Italia non sembra avere la stessa capacità propositiva e oggi non ha nessuno in grado di sostituire Dondi come abilità di muoversi in quei mari e nemmeno come credito personale in quegli ambienti. E per queste cose ci vuole tempo, tanto tempo, le soluzioni non le tiri fuori da un taschino e come ho già scritto altre volte il nostro movimento non sembra aver messo la “produzione” di manager e dirigenti tra le sue priorità. Purtroppo.

Parole che creano muri e polemiche: Gavazzi, un presidente divisivo di lotta e di governo

Gavazzi
ph. Fotosportit/FIR

“Chi sarà? Non lo so, dal nome mi sembra inglese”. Così Alfredo Gavazzi risponde a Ivan Malfatto sul Gazzettino di venerdì circa l’incontro con Conor O’Shea – poi tenutosi sabato a Calvisano – durante il quale i due hanno parlato anche del preparatore atletico per nazionale e franchigie celtiche richiesto dal ct. Quella risposta mi ha colpito, parecchio. Perché è rivelatrice di un modo di approcciarsi al mondo. Non mi ha stupito, intendiamoci, ma colpito sì. Da quelle poche parole si intuisce il fastidio che il presidente FIR prova davanti alla questione. Non è dato sapere sia un fastidio dovuto alla domanda in sé o al fatto che il ct azzurro si presenti in un momento economicamente difficile a chiedere l’ingaggio di un nuovo profilo, o se a infastidirlo è il dettaglio – rivelato dallo stesso Gavazzi – che O’Shea ne ha parlato in precedenza con il Benetton:”Ha già fatto un incontro con il Treviso in proposito”, dice.
Però, quale che siano le ragioni, il fastidio è evidente, “non lo so, dal nome sembra inglese” vale più di mille parole. Tipo un gigantesco “sì, me lo ha accennato ma non è che ci abbia dato un gran peso”. Non so, tanto per dire, io mi chiamo Wilhelm ma sono italiano. Se la FIR un giorno o l’altro decidesse per qualche strana ragione di considerare l’ipotesi di assumermi presumo che qualche informazione su di me la prenderebbe, anche se a far il mio nome fosse stato un interno di grande importanza. O almeno voglio sperarlo.

Il fatto è che Alfredo Gavazzi ha un atteggiamento che è fortemente divisivo. Non lo fa apposta, è così da sempre, e sinceramente è una cosa a cui non darei peso se fosse ancora il presidente del Calvisano, sarebbero esclusivamente fatti suoi e di quel club. Però Alfredo Gavazzi da settembre 2012 è il numero uno del rugby italiano, presidente di quella FIR che rappresenta tutto quello che c’è di ovale dalle nostre parti, e questa cosa non è un dettaglio secondario. Se uno assume un ruolo simile dovrebbe fare un salto di qualità e diventare istituzionale, che significa forse essere un po’ “grigi”, più noiosi, mediaticamente poco (o meno?) protagonisti. Magari non essere “il presidente di tutti” come dice chiunque vinca una qualsivoglia elezione, ma provarci sì. Un po’, almeno. Gavazzi invece ha deciso di rimanere fedele a sé stesso, nonostante un cambio di ruolo notevole.
Intendiamoci, essere istituzionali non significa non fare quello che si ritiene giusto o non dire mai nulla che possa offendere qualcuno, bisogna però trovare altre vie più sottili. L’ho scritto altre volte: la forma, spesso, è sostanza.

Personalmente quella intervista non l’avrei nemmeno rilasciata: un giornalista ti chiama e tu suggerisci di risentirsi dopo l’incontro in programma. Prima si parla con il diretto interessato, poi con la stampa. Però io sono io e Gavazzi – evidentemente – la pensa diversamente. Così facendo ha (volutamente?) seminato qualche dubbio sulla serenità del rapporto con Conor O’Shea visto che sul Gazzettino si legge anche “Quell’ego da mettere da parte è riferito anche a lei? «Non credo. Non ho niente sulla coscienza con O’Shea. Tutto quanto concordato con lui l’ho mantenuto». Le domanderà carta bianca per la Nazionale? «Finora carta bianca l’ha sempre avuta»”. Punzecchiature non richieste, che io – ad esempio – non avrei esternato pubblicamente in un momento così delicato. Ma tant’è.
Va detto che Gavazzi è in buona compagnia, basta pensare a personaggi come il presidente della Federcalcio Tavecchio, o a livelli decisamente più importanti lo stesso Donald Trump. Personaggi fortemente divisivi, che fanno anzi di questo loro aspetto un aspetto di forza. La frase sulle Zebre, ad esempio, la leggo sotto questa particolare luce: “Sulle Zebre sa cosa mi era passato per la testa? Di dimettermi e prenderle in mano io, sono sicuro che con me vincerebbero”. Parole che un salto sulla sedia te lo fanno fare: meno sette di mesi fa sei stato rieletto per guidare l’intero movimento italiano e ti dici pronto a dimetterti per guidarne solo una sua parte, per quanto importante? Ma è solo una boutade, diranno molti di voi. D’accordo, ma il punto è che un presidente FIR – chiunque egli sia – non deve scendere così di livello.

Se sei in una campagna elettorale la cosa può essere comprensibile, in alcuni casi anche conveniente, ma se si tratta di governare… beh, la faccenda si fa un po’ diversa. Tanto più che Gavazzi ha sì vinto le elezioni in maniera inequivocabile ma non con numeri bulgari, quel 46% che ha scelto altre opzioni non deve sentirsi escluso. Ovvio che chi è uscito sconfitto dalla battaglia elettorale protesta e polemizza, fa parte della normale dinamica delle cose, ma un presidente federale dovrebbe fare il pompiere, non l’incendiario. Smussare gli angoli, non alzare muri.

Giovani da far crescere e un patto di ferro con Conor O’Shea: Sergio Parisse entra in mischia

ph. Fotosportit/FIR

Il capitano azzurro in una intervista chiede pubblicamente carta bianca per il ct, sprona i volti nuovi ad un diverso atteggiamento e si augura che il nostro sistema venga radicalmente cambiato. Ma le parole di Gavazzi su Riccioni indicano il persistere di una mentalità diversa

Con la conclusione del Sei Nazioni l’attenzione di tutti – questo blog compreso – si è focalizzata sui dati, i numeri e le statistiche di un torneo che è tutto tranne che da incorniciare. Grande eco hanno poi avuto le parole di Conor O’Shea: il ct nella conferenza stampa dopo la partita con la Scozia ha avvisato le dirigenze di mezzo movimento, dalla federazione in giù, facendo sapere che bisogna “cambiare molte cose e ci sarà gente che ci resterà male, ma i cambiamenti non possono essere indolore. Ripeto, non si pensi al proprio ego”. Inevitabile, raramente abbiamo fatto da spettatori ad avvertimenti così chiari. Ma d’altronde il momento è quello che è, probabilmente il più difficile per il nostro rugby dal 2000 a oggi.

Le dichiarazioni del ct hanno in parte però oscurato quanto avvenuto sul campo a Murrayfield e negli altri stadi del torneo. Specifichiamo: delle singole partite, del gioco espresso dalla nazionale, ho parlato spesso ma più raramente questo blog e gli altri media hanno affrontato le prestazione dei singoli. A farlo, sempre sabato a Edimburgo dopo la partita con la Scozia, è stato il capitano azzurro Sergio Parisse che, come si dice in questi casi, non l’ha toccata esattamente piano. Ecco le sue parole: “Sono un giocatore che si interroga sempre sulla propria performance, sui propri errori, sugli aspetti del gioco da migliorare. Mi auguro tutti lo facciano, perché uscire dal campo oggi sconfitti per 29-0 è dura. (…) Ora Conor ed il suo staff si incontreranno, faranno le loro valutazioni. Tanti giocatori hanno avuto le loro opportunità, starà ai tecnici capire chi dei giocatori è da nazionale, chi no, a chi dare quelle occasioni che in questo torneo hanno avuto magari altri”.

Parisse, come è giusto che sia, non ha fatto nomi. Non erano né il luogo né il momento. Ed esporre alcuni suoi compagni alla gogna pubblica non è nel suo stile e non sarebbe neppure comportamento da capitano. Però ha sollevato un problema che evidentemente c’è, che è nel gruppo azzurro è sentito e probabilmente pure discusso. Non credo che nessuno dei giocatori scesi in campo si sia risparmiato, proprio nessuno. Certo si può giocare bene oppure male, ma è nell’ordine delle cose: si possono passare momenti psico-fisici diversi che influiscono sulle singole prestazioni. Parisse questo lo sa benissimo e sa che pure lui non è sempre stato all’altezza delle attese. Nessuno può esserlo sempre, nemmeno se ti chiami Richie McCaw.

E allora di cosa parlava il nostro capitano? Interpretazione personale è che si riferisse soprattutto al dietro le quinte, a quello che succede lontano dai riflettori. Quello che un giocatore combina in campo è solo la parte più evidente di un iceberg. Determinante, va da sé, ma il tantissimo che c’è sotto non è da meno. Parlo dell’impegno totale, della disponibilità al sacrificio, della voglia di crescere e apprendere, di un atteggiamento determinato ma umile e rispettoso degli altri. Evidentemente non tutti ne hanno dato dimostrazione. Vedremo quali saranno le scelte di O’Shea per il tour estivo di giugno, quell’O’Shea a cui Capitan Parisse dà tutto il suo appoggio e per cui chiede carta bianca: in una intervista pubblicata oggi dal Corriere della Sera il terza linea dice chiaramente che “siamo arrivati al bivio: andare avanti così, dando un contentino a questo e a quello senza risolvere nulla, oppure cambiare il sistema, mettere le persone giuste al posto giusto e lasciare fare a Conor e al suo staff. Ha chiesto tre anni, il primo è andato. Diamogli carta bianca, e se nel 2019 non sarà successo nulla sarò il primo a dire: scusate, non ho capito niente. E mi farò da parte”.

Un Parisse che plaude al nuovo corso delle Accademie (“Quando un’azienda investe e non ha risultati cambia strategia. Razionalizzare può essere un bene e il sistema, com’era, era anche troppo chiuso. Un ragazzo deve sapere che, se ha voglia di lavorare duro, può arrivare in alto anche partendo da un piccolo club”) e  che non si capacita del gap accumulato dal nostro movimento nei confronti della Scozia in soli due anni: “Con tutto il rispetto, vi sembra possibile che un Paese come il nostro, con le nostre risorse, stia dietro alla Scozia? È chiaro che qualcosa non funziona. Nessuno quando nasce sa fare le cose. Deve provare, sbagliare e imparare. Io ho avuto la fortuna di debuttare in azzurro a 18 anni, ho sbagliato molto ma ho imparato. Abbiamo ragazzi con grandi potenzialità, devono solo essere messi in condizione di lavorare come gli altri, di fare i professionisti”. E sui giovani, che “spariscono” dopo l’esperienza in U20 Parisse è netto: “è sbagliato, chi ha fatto quel percorso deve avere la possibilità di giocare subito ad alto livello, con continuità”.
Parole di buon senso che sottolineano il momento decisivo che sta per affrontare il nostro movimento. Dichiarazioni che cozzano con quanto detto dal presidente Gavazzi solo qualche ora prima, che parlando del giovane talento Marco Riccioni che ha firmato un contratto per la prossima stagione con la Benetton ha detto chiaramente “non sono d’accordo. Compie 20 anni a dicembre, secondo me è giovane, un talento che rischiamo di rovinare. Doveva fare il permit player per una stagione, giocare 6-7 partite in Pro 12 e poi l’anno prossimo andare in una franchigia, e non lo dico perché è del Calvisano. Non abbiamo tanti talenti al suo livello, non possiamo rischiare di bruciarlo”. Parole che indicano una concezione legata a quello che è lo status quo attuale, un percorso ben diverso da quello che indicano O’Shea e Parisse.

Italia Anno Zero: numeri del Sei Nazioni impietosi. O’Shea avvisa: “Non sono qui a perdere tempo, qualcuno deve mettere l’ego da parte”

O'Shea e Parisse
ph. Fotosportit/FIR

Il torneo di quest’anno si chiude con dati anche peggiori rispetto al già disastroso 2016. Il ct chiede uno scatto a tutto il movimento, decisive le prossime settimane. Gavazzi “vede” le Zebre a Roma o a Milano: nel capoluogo lombardo eventualmente coinvolta anche l’ASR?

Finalmente è finito. Opinione personalissima, ma quest’anno il Sei Nazioni è stato una vera sofferenza, e sì che noi appassionati italiani un certo callo dovremmo avercelo fatto…
Il torneo 2016 era stato definito praticamente da tutti come il nostro peggior Sei Nazioni di sempre, ma il 2017 non è così da meno: ultimi, nemmeno un punto fatto nonostante l’introduzione dei punti di bonus che 12 mesi fa non c’erano, 6 mete fatte contro le 8 della scorsa edizione quando però ne avevamo incassate anche tre in più: 29 allora, 26 oggi. Differenza punti? Meglio un anno fa: -145 contro gli attuali -151, ma è roba da discussione sul sesso degli angeli. Un senso generale e pressoché continuo di impotenza.
Quando l’Italia se l’è veramente giocata? Nel primo tempo della partita con il Galles e nella partita di Twickenham, quando abbiamo tirato fuori quell’autentico coniglio dal cilindro – non replicabile, tra l’altro – che è stata la “no ruck”, che comunque non ci ha impedito di uscire sconfitti e di perdere in maniera netta 36-15: un risultato maturato negli ultimi 10 minuti (al 69′ stavamo ancora 17-15), verissimo, ma i punti fatti dopo il 70′ valgono uguale a quelli prima. Vogliamo metterci i primi 15′ di Italia-Francia? Mettiamoceli. Rimane un panorama spoglio, deprimente. La ciliegina sulla torta sono i quasi 20mila spettatori in meno in media all’Olimpico.

La fotografia è questa, qua e là qualcuno potrebbe infilarci un mezzo alibi o una parziale scusante, ma quello rimangono: alibi e scusanti.
Nel quadro complessivo bisogna pure aggiungerci la nazionale U20 e quella femminile: anche per loro nemmeno una vittoria in 5 partite, due punti di bonus per gli azzurrini e uno per le ragazze. Tre cucchiai di legno assieme non ci capitavano dal 2009.
Brutto il torneo delle azzurre, soprattutto se paragonato agli ultimi due. Le nostre giocatrici sono apparse spesso contratte e con grosse difficoltà in fase realizzativa, ma va pure detto che tra tutte le nostre selezioni sono quelle che più se la sono giocata con le squadre avversarie. Per loro comunque il peggior torneo degli ultimi anni, non un buon viatico in vista del Mondiale di agosto in Irlanda. Certo, avessero giocato qualche test a novembre… Il ct Di Giandomenico non ha potuto vedere la sua squadra all’opera praticamente per un anno.
Lo stesso non si può dire dell’U20, squadra per la quale il refrain del “miglior gruppo degli ultimi anni” comincia un po’ a stancare: perché da un lato è vero, ma dall’altro in 4 gare su 5 non hanno mai dato l’impressione di poter davvero vincere (il primo tempo con il Galles, toh) e hanno buttato via una occasione gigantesca contro l’Irlanda. Alla fine i numeri di questi ragazzi se confrontati con l’edizione 2016 non sono affatto diversi: un anno fa i punti di bonus non c’erano, il numero di mete subite è assolutamente identico (21) ma quest’anno ne sono state incassate il doppio (8 contro 4) mentre migliore è la differenza punti (-95 a fronte di -117 di un anno fa).

In questo quadro arrivano le parole di Conor O’Shea al termine della partita di Murrayfield: “Sono un positivo, vedo sempre il bicchiere mezzo pieno. Ma non sono uno stupido, non sto qui a prendere tempo. Ho fiducia in questo gruppo, resto convinto che possiamo diventare un’ottima squadra. Ma gli investimenti devono essere fatti nell’interesse esclusivo della Nazionale. E’ l’Italia l’unica cosa che conta. Le decisioni che dovremo prendere faranno male a qualcuno, ma Irlanda, Galles, Scozia hanno fatto scelte difficili per il rugby di club, investito sulle franchigie. E’ facile fare questi cambiamenti, a patto di volerlo. Sarà difficile? Sì, ma è fattibile e deve essere fatto. Qualcuno dovrà mettere il proprio ego da parte nell’interesse della maglia azzurra. Vogliamo cambiare molte cose e ci sarà gente che ci resterà male, ma i cambiamenti non possono essere indolore. Ripeto, non si pensi al proprio ego”.
Un mezzo ultimatum? Non so, di sicuro un messaggio chiaro e inequivocabile. Per settimane il ct azzurro ha detto che profondi cambiamenti erano necessari, ieri ha messo in chiaro le cose usando un linguaggio che non necessita di interpretazioni.
A chi erano dirette le sue parole? Un po’ a tutti: dirigenti di club, quelle delle franchigie e ovviamente in federazione.

Le carte sono sul tavolo, che un incontro con il presidente Gavazzi sia già avvenuto o meno. Ma non credo che il presidente federale fosse all’oscuro delle idee di O’Shea. Le richieste le tecnico irlandese? Staff tecnici numericamente e qualitativamente all’altezza, accademie legate alle celtiche, una definitiva e sensata sistemazione del “su e giù” dei giocatori tra Eccellenza e Benetton e Zebre sono i primi fondamentali passi. Idee che dalle nostre parti circolano già da diversi anni, qualcuno le ha messe nero su bianco già all’alba dell’avventura celtica, ma che finora sono state osteggiate o tenute in un cassetto della FIR.
Cambiare idea non è un delitto, anzi (se poi lo si fa in senso migliorativo…) e in federazione non è una novità: solo un paio di anni fa o giù di lì si diceva che le due franchigie dovevano avere uno staff completamente italiano e che pure la nazionale avrebbe dovuto averlo, anche se in una seconda fase. Oggi abbiamo uno staff azzurro che è al 90% composto da stranieri, head coach a Treviso è un neozelandese e pare che pure le Zebre finiranno a un irlandese la prossima stagione (rugbymercato.it parla di apertamente di Michael Bradley). Zebre che nel loro staff hanno da tempo De Marigny, che è in Italia da tanti anni ma certo italiano non è, mentre a Treviso venne negato il tesseramento di Corniel Van Zyl, abbastanza italiano per giocare in nazionale ma non abbastanza per allenare.

Anche sulle accademie c’è stata una bella rivoluzione copernicana: dalla prossima stagione saranno dimezzate quando solo 7-8 mesi fa il presidente Gavazzi girava tutta l’Italia proponendo un programma elettorale nel quale uno dei punti fondamentali era il loro aumento numerico. Non lo dico io, basta leggersi il programma. Ora, per ragioni economiche, si progetta il loro taglio, ma i guai di bilancio erano già sicuramente noti anche la scorsa estate.
Ma al di là di tutto quello che manca al nostro movimento è quell’unità di intenti che traspare dalle parole di O’Shea. Sabato lo ha spiegato Domenico Calcagno dalle pagine del Corriere della Sera: il claim della federazione scozzese è “As One”, espressione che non ha bisogno di traduzione. Da noi si va avanti in ordine sparso, ognuno guarda al suo giardinetto in una continua esibizione di muscoli dal panorama davvero ridotto e che coinvolge tutti, dalla federazione ai club. Un ordine sparso che non dà risultati per nessuno: le nazionali vanno come vanno, le franchigie sono sempre nelle ultime posizioni del Pro12 e l’Eccellenza langue da tanti anni nel disinteresse di pubblico, media e sponsor.
Non conosco bene l’ambiente scozzese ma sono sicuro che pure lì gli interessi particolari non mancano, eppure…

Ripartire con un programma comune a cui tutti partecipino e che veda tutti fare qualche passo indietro sotto un aspetto o un altro è l’unico modo per invertire la rotta, l’alternativa è il nostro quotidiano attuale, che credo non piaccia a nessuno. Ma magari mi sbaglio.
Prima di salutarvi due dichiarazioni, la prima è di Sergio Parisse che in conferenza stampa ha parlato dei suoi compagni di squadra, senza mandarle a dire: “Sono un giocatore che si interroga sempre sulla propria performance, sui propri errori, sugli aspetti del gioco da migliorare. Mi auguro tutti lo facciano, perché uscire dal campo oggi sconfitti per 29-0 è dura. Ora Conor ed il suo staff si incontreranno, faranno le loro valutazioni. Tanti giocatori hanno avuto le loro opportunità, starà ai tecnici valutare con chi continuare a lavorare e chi merita ulteriori opportunità a questo livello“. Chi vuole capire capisca, insomma.
La seconda e ultima è di Alfredo Gavazzi, che sul Messaggero Veneto parla prima di quell’U20 cui ancora solo pochi mesi fa si diceva sicuro dei risultati già quest’anno: “C’è qualcosa che non va se sei una buona squadra, se potresti batterle tutte, meno l’Inghilterra che è di un altro pianeta”. Poi, dopo aver criticato la scelta di Riccioni di firmare per il Benetton Treviso affronta il tema franchigie: “Sono andato a Parma ogni lunedì per un anno, mi sarebbe piaciuto creare una mentalità nella gestione del club. Ora è tanto che non ci tomo. Non so cosa accadrà. So che a Milano c’è un campo che possono rimettere a posto, 5mila posti, poi c’è il Flaminio a Roma che potrebbe essere il campo di una franchigia se andassimo lì. E’ improponibile pensare a una terza franchigia perché non abbiamo i giocatori per alimentarla (anche qui: fino a pochi mesi fa si sosteneva il contrario: ma meglio così, ndr). Saranno due fino al 2020 perché questo è l’accordo con il Pro12. Dico che Milano mi piacerebbe perché farebbe da riferimento al bacino del Nord, ma Roma potrebbe essere il traino per il Sei Nazioni a livello di pubblico”. A Milano nell’eventuale progetto celtico potrebbe essere coinvolta l’ASR che a fari spenti starebbe muovendosi in questa direzione. Pare. Vedremo, le prossime settimane saranno le più importanti per il nostro movimento da tanti anni a questa parte.

La sede nuova della FIR finisce nel cassetto, il coniglio dal cappello ora è il Flaminio

Il presidente Alfredo Gavazzi mette la parola fine all’acquisto della nuova sede per la federazione che tanto aveva fatto discutere ma che per lui sembrava un passaggio tanto fondamentale quanto ormai praticamente concluso. E invece. Il numero uno del rugby italiano apre poi all’acquisto del Flaminio, ora in rovina, ma non per farci giocare la Nazionale…

Quindi, oggi par di capire che le cose vanno così: la sede nuova della FIR che sembrava cosa fatta evapora in un nonnulla, però si pensa ad acquistare il Flaminio, ma non per giocarci il Sei Nazioni. Di più, la nazionale maggiore proprio non ci giocherà. Il Flaminio per le Zebre o come si chiameranno? Forse, però uno stadio da 25mila posti… Boh.
Forse il bilancio in rosso e i problemi economici conseguenti hanno fatto mettere la parola “fine” alla vicenda della nuova sede che fino a qualche mese fa sembrava essere un punto fondamentale e no discutibile per chi gestisce la federazione. Forse. Le parole di Alfredo Gavazzi, dichiarazioni confermate da fonti federali anche a questo blog:

Da Rugby 1823: “Pensiamo di poter acquisire lo stadio entro la fine dell’anno. Ma Roma è Roma. Ci vuole tempo” dice Alfredo Gavazzi. Lo dice oggi sulle pagine de L’Equipe e lo stadio di cui parla è il Flaminio. Secondo il numero 1 della Fir, da quel che riporta il giornale francese, l’idea è di rendere il Flaminio il proprio centro nazionale di rugby con uffici, palestre o cura. Lo stadio sarà, inoltre, rinnovato senza aumentare la capacità (25.000 posti). L’acquisto e la modernizzazione Flaminio avrà un costo di circa 40 milioni di euro”.

Da Repubblica.it: “Funzionerà per la squadra femminile, il rugby a 7 o le squadre giovanili. Ma la Nazionale non ci giocherà. Abbiamo bisogno di almeno 50.000 posti. La Nazionale per il Torneo (delle Sei Nazioni) giocherà all’Olimpico”.