Il Tinello di Vittorio Munari: private equity, e quei ritardi U20 e da Top 12

Un fondo economico che farà ricche le federazioni, ma il gioco vale la candela? E poi quelle parole del ct azzurro dell’U20 che mettono a nudo un gap strutturale più grande di quello che si pensi… Palla a Vittorio!

Stadi e strutture del rugby in Italia: la teoria dei quanti applicata alla palla ovale

La meccanica e la fisica quantistica si occupano dell’infinitamente piccolo e studiano un mondo all’apparenza bizzarro, che va in modo “altro” rispetto quella che è la nostra comune esperienza quotidiana. E forse non ci crederete, ma il nostro rugby sembra adattarsi bene…

Quando qualche giorno fa ho scritto e pubblicato un articolo relativo al pubblico televisivo della finale del nostro massimo campionato nazionale qualcuno ha sottolineato che dall’alto livello della palla ovale italiana sono tagliate fuori tutte le grandi città, e che quindi inevitabilmente anche la capacità mediatica e attrattiva della palla ovale ne risente. Poca attenzione uguale a poco pubblico, sugli spalti e davanti alla tivvù.
Cosa vera per quanto riguarda le squadre partecipanti ai play-off, un po’ meno per l’intero panorama del Top 12 dove comunque Firenze e Roma sono rappresentate ma dove i risultati in termini di pubblico, capacità di richiamare sponsor e interesse mediatico non è diversa da quella di altre piazze. Purtroppo.

Al di là di questo è comunque indubbio che se si riuscisse a coniugare una buona qualità tecnica del gioco in campo a delle città dai bacini numerosi ed economicamente interessanti il trend stagnante degli ultimi anni potrebbe essere quantomeno smosso, se non invertito, anche se i tempi sarebbero necessariamente medio-lunghi.
Però come dice l’antico adagio popolare chi ha il pane non ha i denti e viceversa. Così a città come – ad esempio – Genova che possono contare su una bella struttura come il Carlini non ci sono (a oggi, si intende) squadre che militano nel Top 12 si “contrappongono” metropoli come Roma che i club a quel livello li hanno ma di stadi adeguati nemmeno l’ombra.

Poi c’è il caso di Milano, che non ha né l’uno né l’altro. Anche se a dire il vero una struttura qualche anno fa era stata trovata e su questa avrebbero dovuto gravitare le Zebre (a proposito, nuovi rumors non confermati ma piuttosto sostenuti le vogliono in procinto di trasferirsi in Lombardia in tempi non lunghissimi. E non a Milano. Vedremo, non è la prima volta che voci così circolano con insistenza).
Forse non lo ricordate ma la giunta Pisapia tra il 2013 e il 2014 aveva approntato un piano per ristrutturare il Velodromo Vigorelli, ai tempi praticamente inutilizzato da tanti anni. L’idea era quella di una struttura polifunzionale in cui avrebbero trovato albergo diverse discipline, dal football americano al rugby, passando chiaramente per il ciclismo.
Qui però cascò l’asino: un comitato ciclistico presentò un ricorso al Ministero dei Beni Culturali che alla fine di una battaglia di carte bollate impose al Comune di Milano di non far partire i lavori perché l’impianto era di valore storico e questo lo rendeva praticamente intoccabile, una specie di Colosseo all’ombra della Madonnina. Quella pista non si poteva nemmeno sfiorare.

Tutto finì quasi un nulla. Dico quasi perché il Vigorelli ha comunque iniziato un lento processo di ristrutturazione ad uso e consumo soprattutto delle due ruote con qualche spazio per il football americano e (pare) nei prossimi mesi per allenamenti di calcio e minirugby.
Come direbbe il poeta il tutto è certamente meglio di un calcio nel culo, ma siamo molto lontani dalle potenzialità di una struttura che viene limitata da quella che non saprei come altro definire che ingerenza ideologica da parte di un comitato che tra il 2014 e oggi ha organizzato un numero tale di eventi che avrebbero potuto tranquillamente alternarsi anche al rugby più importante senza mai pestarsi i piedi. Ma che volete, gli stupidi sono gli inglesi che tirano giù una cattedrale come Wembley per costruire uno stadio ancora più bello e funzionale…

Momento bile passato, tranquilli, ma questo è lo stato dell’arte in Italia. A sud di Roma il processo di desertificazione è in atto da tempo, altrove le dimensioni dell’interesse mediatico si riducono rispetto a quelle che erano erano una ventina di anni fa o comunque non crescono nonostante la valanga di soldi e potenziale interesse creato dall’ingresso nel Sei Nazioni. Da altre parti ci si comporta come se si stesse discutendo di mettere mano alla Cappella Sistina (è il caso anche del Flaminio, proprio nella capitale).
E poi c’è il buffissimo caso caso di un piccolo borgo di 8mila abitanti nel mezzo della Pianura Padana il cui campo di rugby viene attrezzato per ospitare oltre 5mila persone in gran parte con interventi federali. Ripeto: ottomila abitanti, cinquemila posti allo stadio. Roba che seguendo queste proporzoni a Milano dovrebbero fare uno stadio di calcio da un milione di posti. Almeno.
Un borgo che non è particolarmente servito da grandi infrastrutture e si trova solo ad una ottantina di km da quella che oggi può essere considerata l’attrezzatissima Coverciano del rugby italiano (Parma). Ma tranquilli, non è uno spreco, e che siamo un paese bellissimo e spesso non ce lo ricordiamo.

Nazionali U20, minutaggi e step di crescita: se a dire che c’è un problema è il ct…

Il responsabile tecnico degli azzurrini Fabio Roselli in una intervista dice quello che qui (e altrove) viene sostenuto da anni, ma noi si passa da portatori di sventure. Sarà un gufo pure lui?

Per molti sono uno di quelli che il bicchiere del rugby italiano lo vede sempre mezzo vuoto, che non tiene mai presente quanto di buono viene fatto. Insomma, un gufo. Già. Sarà così.
E allora ho pensato di pubblicare alcune dichiarazioni rilasciate dal ct della nazionale U20 Fabio Roselli in una intervista pubblicata ieri (lunedì 27 maggio) dal Gazzettino.
Sono tesi che sostengo da anni e che ho scritto più volte qui e quando stavo a OnRugby. Se non sono nuove significa che nessuno è mai intervenuto fino ad oggi e che quindi il problema c’è, visto che lo dice anche il responsabile tecnico della nostra seconda nazionale più importante. Insomma, non sono un visionario. Almeno parrebbe.
Siccome per alcuni sono un gufo vi propongo una scommessa: tra un anno saremo ancora qua a discutere/parlare di questa cosa, perché nessuno ci avrà messo mano. Spero di perderla, ma non sarà così.
Ecco lo stralcio con le frasi di Roselli:

“(uno degli obiettivi in questa categoria, ndr) Allargare il numero di giocatori, oltre quelli a dell’Accademia. L’anno scorso abbiamo coinvolto circa 70 giocatori, monitorandoli costantemente nei club. Quest’anno sono un po’ meno. Il tutto per arrivare ai 28 convocati perla World Cup, più 2-3 in stand by, se capiteranno infortuni».
Che risultati avete ottenuto? «Buoni nella sensibilizzazione degli staff dei club. Ancora bassi nei minutaggio di gioco, perché le società hanno comprensibilmente i loro obiettivi. Negli under 20 in Top 12 l’ideale per la crescita sarebbe un media di circa 800′ in campo prima del Sei Nazioni e oltre 1000′ stagionali. Solo 4-5 giocatori li raggiungono». Ciò contribuisce in Nazionale a fare la differenza con Inghilterra, Francia, Irlanda e le altre. «Sì perché dall’altra parte ti trovi ventenni con 800′-1300′ in Top 14, Premiership e Pro 14, che tra l’altro sono campionati di livello superiore al nostro».

Il circolino dei 77mila: il rugby ormai sa parlare solo a se stesso?

Tanti sono stati i telespettatori della finale del Top 12. Come valutare quel numero? La pancia dice immediatamente una cosa mentre la testa… Ma ormai siamo impelagati in una battaglia di retroguardia che non può vedere vincitori, solo sconfitti. A meno di non invertire la rotta

Settantasette. Un bel numero. E poi ve lo ricordate Mike Bongiorno che in televisione ripeteva ogni volta possibile “77, le gambe delle donne!”? Oppure il punk del ’77, quello dei Sex Pistols, un po’ più accessibile di quello di qualche anno prima degli Stooges di Iggy Pop. Per molti il numero 77 ricorda gli anni di piombo. A me invece quel numero porta soprattutto alla mente i miei amatissimi CCCP-Fedeli alla Linea, con quel verso di “Emilia Paranoica” che dice “chiedi a 77 se non sai come si fa”. Vabbé.
77(mila) è anche il numero di spettatori che hanno visto in televisione la finale del massimo campionato nazionale tra Calvisano e Rovigo, vinta dai bresciani. Come valutare quella cifra? Il primo impulso sarebbe di dire che proprio tantissimi non sono, anzi, però se si tiene presente che il Top 12 è un torneo che conta su pochissima – se non nulla – pubblicità, conosciuto praticamente solo da chi ha già una qualche confidenza con la palla ovale, beh allora quei 77mila non sono proprio da buttare via. Per carità, non c’è nemmeno da stappare bottiglie di champagne, ma neanche da strapparsi i capelli. Va da sé che se facciamo il paragone con certi finali del passato…

Però c’è da ragionarci un po’. Perché da questo numero, assieme al mezzo milione di persone circa che vede in tivvù i match del Sei Nazioni, dice parecchio del rallentamento del nostro movimento rugbistico. Stavolta non parliamo del lato tecnico o dei risultati del campo, ma di uno degli inevitabili effetti che discendono da quei due aspetti: la capacità del rugby di “parlare” con chi segue poco questa disciplina.
E’ vero: è uno sport complesso, non immediato e bla bla bla. La nazionale non vince quasi mai, i nostri club sono riusciti ad alzare la testa solo questa stagione (anche se sarebbe più onesto e corretto parlare di una singola squadra, sperando che si confermi in futuro): in questa situazione nel corso degli anni è stato quasi obbligatorio puntare la comunicazione sui “valori” e sul terzo tempo, ma anche qui il gioco sta mostrando la corda da parecchio.

Il fatto è che ormai il rugby italiano parla solo a se stesso, ha perso qualsiasi capacità espansiva verso i mondi esterni. Fermiamoci a pensare un attimo e facciamoci una semplice domanda: perché qualcuno dovrebbe appassionarsi al rugby e nello specifico al rugby giocato in Italia a qualsiasi livello? Se uno non capisce nulla di questa disciplina e incrocia per caso in televisione una partita degli All Blacks, dell’Inghilterra, del Galles o dell’Irlanda le possibilità che si fermi a guardarla sono quantomeno buone, perché sono squadre che praticano spesso un gioco spettacolare, capace di attirare anche un profano. Quantomeno incuriosirlo. Chiunque si rende immediatamente conto della qualità sportiva che ha di fronte. E’ come vedere una partita di NBA.
Il nostro rugby non è così, ahimè, e le poche eccezioni sono appunto tali: eccezioni. Quindi finiamo per accontentarci di quel 77mila. Ma è una battaglia di retroguardia persa in partenza, a meno che non si voglia raccontarsela sempre e soltanto tra di noi.

Metti una fine estate milanese un po’ All Blacks: l’Asr organizza un Clinic da non perdere

A fine agosto l’Asr Milano organizza nel capoluogo lombardo un evento ovale a cui partecipano tecnici inviati dalla federazione neozelandese (compresi alcuni ex tuttineri), aperto a 100 ragazzi e ragazze di età compresa tra i 14 e i 18 anni. Iscrizioni aperte, qui tutte le info necessarie

Nelle stesse ore in cui va in scena l’ennesima dimostrazione di pressapochismo della comunicazione ovale italiana (che la passione è bella e va bene, ma se si vuole fare un salto di qualità bisognerebbe affidarsi a dei professionisti. Almeno i club del massimo campionato italiano. Che per carità, non ci si mette al riparo al 100% da scivoloni, però cose del genere difficilmente succederebbero. O non verrebbero diffusi comunicati – poi fatti prontamente sparire dal web – in cui ci tocca leggere che se su una data partita si hanno idee diverse dall’estensore della nota è perché non si capisce nulla di questo sport. Era scritto proprio così) viene diffuso un comunicato che annuncia una bella iniziativa che avrà luogo a Milano nella seconda metà di agosto.

Di cosa stiamo parlando? Dell’All Blacks Clinic organizzato dalla Asr Milano e che prevede 5 giorni di allenamento intensivo (12 sessioni in campo e 10 in aula) curato da 4 allenatori della federazione neozelandese (due dei quali sono ex All Blacks) e a cui si affiancano allenatori FIR. In tutto uno staff di 25 persone per garantire assistenza 24 ore su 24 ai ragazzi. A disposizione uno staff medico e di fisioterapisti.
Per i non milanesi: l’Asr, qui all’ombra della Madonnina, a torto o ragione, è la società considerata un po’ snob da tutte le altre realtà ovali meneghine. Quella che si fa gli affari suoi e che risulta sempre difficile coinvolgere in manifestazioni collegiali. Cosa abbastanza difficile da smentire, ma è altrettanto vero che il club biancorosso è superorganizzato e capace di organizzare eventi davvero belli e importanti. Come questo clinic, le cui iscrizioni sono ora ufficialmente aperte. Se potete non fatevelo scappare…

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