Stadi e strutture del rugby in Italia: la teoria dei quanti applicata alla palla ovale

La meccanica e la fisica quantistica si occupano dell’infinitamente piccolo e studiano un mondo all’apparenza bizzarro, che va in modo “altro” rispetto quella che è la nostra comune esperienza quotidiana. E forse non ci crederete, ma il nostro rugby sembra adattarsi bene…

Quando qualche giorno fa ho scritto e pubblicato un articolo relativo al pubblico televisivo della finale del nostro massimo campionato nazionale qualcuno ha sottolineato che dall’alto livello della palla ovale italiana sono tagliate fuori tutte le grandi città, e che quindi inevitabilmente anche la capacità mediatica e attrattiva della palla ovale ne risente. Poca attenzione uguale a poco pubblico, sugli spalti e davanti alla tivvù.
Cosa vera per quanto riguarda le squadre partecipanti ai play-off, un po’ meno per l’intero panorama del Top 12 dove comunque Firenze e Roma sono rappresentate ma dove i risultati in termini di pubblico, capacità di richiamare sponsor e interesse mediatico non è diversa da quella di altre piazze. Purtroppo.

Al di là di questo è comunque indubbio che se si riuscisse a coniugare una buona qualità tecnica del gioco in campo a delle città dai bacini numerosi ed economicamente interessanti il trend stagnante degli ultimi anni potrebbe essere quantomeno smosso, se non invertito, anche se i tempi sarebbero necessariamente medio-lunghi.
Però come dice l’antico adagio popolare chi ha il pane non ha i denti e viceversa. Così a città come – ad esempio – Genova che possono contare su una bella struttura come il Carlini non ci sono (a oggi, si intende) squadre che militano nel Top 12 si “contrappongono” metropoli come Roma che i club a quel livello li hanno ma di stadi adeguati nemmeno l’ombra.

Poi c’è il caso di Milano, che non ha né l’uno né l’altro. Anche se a dire il vero una struttura qualche anno fa era stata trovata e su questa avrebbero dovuto gravitare le Zebre (a proposito, nuovi rumors non confermati ma piuttosto sostenuti le vogliono in procinto di trasferirsi in Lombardia in tempi non lunghissimi. E non a Milano. Vedremo, non è la prima volta che voci così circolano con insistenza).
Forse non lo ricordate ma la giunta Pisapia tra il 2013 e il 2014 aveva approntato un piano per ristrutturare il Velodromo Vigorelli, ai tempi praticamente inutilizzato da tanti anni. L’idea era quella di una struttura polifunzionale in cui avrebbero trovato albergo diverse discipline, dal football americano al rugby, passando chiaramente per il ciclismo.
Qui però cascò l’asino: un comitato ciclistico presentò un ricorso al Ministero dei Beni Culturali che alla fine di una battaglia di carte bollate impose al Comune di Milano di non far partire i lavori perché l’impianto era di valore storico e questo lo rendeva praticamente intoccabile, una specie di Colosseo all’ombra della Madonnina. Quella pista non si poteva nemmeno sfiorare.

Tutto finì quasi un nulla. Dico quasi perché il Vigorelli ha comunque iniziato un lento processo di ristrutturazione ad uso e consumo soprattutto delle due ruote con qualche spazio per il football americano e (pare) nei prossimi mesi per allenamenti di calcio e minirugby.
Come direbbe il poeta il tutto è certamente meglio di un calcio nel culo, ma siamo molto lontani dalle potenzialità di una struttura che viene limitata da quella che non saprei come altro definire che ingerenza ideologica da parte di un comitato che tra il 2014 e oggi ha organizzato un numero tale di eventi che avrebbero potuto tranquillamente alternarsi anche al rugby più importante senza mai pestarsi i piedi. Ma che volete, gli stupidi sono gli inglesi che tirano giù una cattedrale come Wembley per costruire uno stadio ancora più bello e funzionale…

Momento bile passato, tranquilli, ma questo è lo stato dell’arte in Italia. A sud di Roma il processo di desertificazione è in atto da tempo, altrove le dimensioni dell’interesse mediatico si riducono rispetto a quelle che erano erano una ventina di anni fa o comunque non crescono nonostante la valanga di soldi e potenziale interesse creato dall’ingresso nel Sei Nazioni. Da altre parti ci si comporta come se si stesse discutendo di mettere mano alla Cappella Sistina (è il caso anche del Flaminio, proprio nella capitale).
E poi c’è il buffissimo caso caso di un piccolo borgo di 8mila abitanti nel mezzo della Pianura Padana il cui campo di rugby viene attrezzato per ospitare oltre 5mila persone in gran parte con interventi federali. Ripeto: ottomila abitanti, cinquemila posti allo stadio. Roba che seguendo queste proporzoni a Milano dovrebbero fare uno stadio di calcio da un milione di posti. Almeno.
Un borgo che non è particolarmente servito da grandi infrastrutture e si trova solo ad una ottantina di km da quella che oggi può essere considerata l’attrezzatissima Coverciano del rugby italiano (Parma). Ma tranquilli, non è uno spreco, e che siamo un paese bellissimo e spesso non ce lo ricordiamo.

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Bilbao e le finali delle coppe europee: un cruccio che per noi deve diventare un nodo al fazzoletto

La città spagnola (e basca) questo fine settimana farà da palcoscenico agli atti conclusivi di Challenge e Champions Cup. E’ la prima volta che questo genere di gare si giocano al di fuori dei paesi del Sei Nazioni. Escludendo l’Italia, purtroppo

Ma cosa porta ospitare le finali di Challenge e Champions Cup? Circa 32 milioni di euro. A dircelo, qualche giorno fa, è stato Il Sole 24 Ore con un articolo a firma di Giacomo Bagnasco. Quella cifra è “il bottino ottenuto nel 2017 da Edimburgo, che Bilbao conta di imitare quest’anno”, come si legge sul quotidiano economico. Un centinaio circa le tv di ogni dove che saranno presenti e poi ci sono i tifosi: quelli che si siederanno al San Mames della città spagnola saranno almeno 80mila, i 53mila per la finale di Champions Cup di sabato 12 (stadio sold out) più i circa 30mila della sera prima, quando si sfideranno le due squadre che si contenderanno la Challenge Cup.

Già, le squadre. Eccole: Leinster e Racing92 per il trofeo più importante, Gloucester e Cardiff Blues per la Challenge. Irlanda, Francia, Galles e Inghilterra, ovvero bacini e movimenti importanti per storia e tradizione e che garantiranno una presenza importante di tifosi.
Leggiamo ancora Giacomo Bagnasco: “Un successo notevole, quello ottenuto dalla città basca grazie a un gioco di squadra che ha coinvolto il ministero spagnolo dello Sport, le federazioni di calcio e rugby, la Liga calcistica, l’Athletic Bilbao (club icona del territorio, che nel 1977 al “vecchio” San Mames perse la Coppa Uefa contro la Juventus) e tutte le istituzioni locali”.
Un altro stralcio: “Per la prima volta l’ultimo atto delle Coppe ovali si gioca al di fuori del perimetro dell’aristocrazia del rugby europeo,costituita da Irlanda, Galles, Scozia, Francia e Inghilterra. Ma d’altronde la Spagna aveva già saputo rendersi disponibile nei confronti di grandi eventi di questo sport. Per esempio il Camp Nou di Barcellona aveva ospitato nel 2016 la finale del campionato francese (…) e si trovò sugli spalti 99mila persone, record mondiale per un confronto tra club di rugby. (…) Così come accade per il Sei Nazioni sono i diritti televisivi a garantire le cifre più rilevanti, in massima parte grazie alle somme sborsate dalle emittenti che trasmettono le partite nel Regno Unito e in Francia. Di fatto arriva dalle tv ben più della metà dei proventi conseguiti da Epcr”.

Questo l’aspetto economico di un fine settimana atteso e affascinante e che un po’ di rabbia non può non farcela. Perché è vero che la Spagna ha già ospitato eventi rugbistici importantissimi, è vero che pur giocando in un paese che non ha una grande tradizione ovale è stata scelta una città basca, area dove il gioco del rugby non è certo sconosciuto, anzi.
Però rimane il fatto che le finali delle due massime competizioni europee dopo aver girovagato per Inghilterra, Galles, Scozia, Francia e Irlanda vanno a disputarsi in Spagna mentre l’Italia, che pure fa parte dell’élite del Sei Nazioni, continua a far da spettatrice.
Il 2015, lo ricordiamo, sembrava essere l’anno buono, con le finalissime dell’allora Heineken Cup e Challenge Cup che dovevano disputarsi a Milano, a San Siro. Mancava giusto l’annuncio ufficiale che però non è mai arrivato.
Se il capoluogo lombardo non ospitò quel duplice evento non fu per una qualche “mancanza” del dossier curato dalla FIR, che era completo ed era stato accettato: non si giocò all’ombra della Madonnina perché l’ERC, l’organizzazione continentale che gestiva quei due trofei, implose per le tensioni interne e dalle sue ceneri nacque l’EPCR che decise che Twickenham avrebbe dato più garanzie di successo rispetto a San Siro, con il risultato di giocare quelle finali in uno stadio mezzo vuoto.

Un insuccesso di pubblico che certo non vide nessuno dalle nostre parti strapparsi i capelli ma da lì l’EPCR è comunque ripartita e ha rimesso le cose nei tradizionali binari mentre noi siamo rimasti fermi al palo e la scelta di Bilbao non può non essere vissuta come una sconfitta dal nostro movimento. E tutto sommato anche la scelta di Newcastle per le finali 2019 deve farci pensare, anche se immaginare due finali consecutive in sedi “anomale” era davvero troppo. Perché è vero che si giocherà in Inghilterra, paese che ha dato i natali al rugby, ma in un’area e in una città che hanno nel calcio una passione quasi unica e totalizzante.
Qualche anno fa ho pubblicato assieme a Marco Turchetto una guida ovale delle 11 città inglesi che hanno ospitato le gare della RWC 2015 (“Rugby Life”, se non l’avete comprata non vi parlo più, ecco) e quando siamo capitati a Newcastle un geordie di settima generazione – geordie è il nomignolo con cui sono chiamati in Inghilterra gli abitanti di Newcastle, ndr – ci disse che quando Wilko giocava con i Falcons a vedere le partite ci andavano in media sì e no 5mila persone mentre alle gare del Newcastle calcio lo stadio era (ed è) praticamente sempre sold out: oltre 50mila spettatori per una squadra che non vince un campionato inglese dal 1927 e una Coppa d’Inghilterra dalla metà degli anni ’50.
“Newcastle and north of England loves football” ci disse quel tizio (che possiede un bellissimo negozio di memorabilia sportiva, proprio a due passi dal St James’ Park), e il rugby da quello parti è soprattutto quello a 13.
Abbiamo tanti alibi e tante giustificazioni ma la ciccia è che dobbiamo muoverci, anche sotto questo aspetto. Un’altra Bilbao non sarebbe tollerabile.

Rugby Facts For Dummies: Milano tra Zebre e All Blacks

Portare la franchigia a Milano? Ma due mesi fa non era Roma? E come funziona e chi decide se gli All Blacks possono giocare a San Siro? Sicuri che servae avere la giunta comunale dalla propria parte? Qui tutte le risposte…

L’Italia esce dai radar: nel 2018 Champions e Challenge Cup voleranno a Bilbao

Le finalissime delle due competizioni europee nel biennio 2018/2019 si giocheranno a Bilbao e a Newcastle, due scelte diverse tra loro ma comunque entrambe di confine. E noi, che dovevamo ospitare la finale 2015, che fine abbiamo fatto?

L’annuncio l’EPCR lo ha dato lunedì pomeriggio. Eccolo: “Il movimento rugbistico europeo di club esplorerà nuovi orizzonti, a seguito dell’annuncio avvenuto oggi, 3 aprile 2017, che sarà la città di Bilbao a ospitare le finali 2018 della Champions Cup, della Challenge Cup e del Continental Shield, mentre Newcastle avrà l’onore di ospitare il weekend di gare della stagione 2019”.
Così il comunicato stampa dell’ente che organizza e gestisce le due principali coppe europee di rugby.  Nel 2018 il palcoscenico sarà quindi il San Mamés, lo stadio dove abitualmente gioca l’Athletic Bilbao (calcio) mentre l’anno dopo si andrà in Inghilterra, a Newcastle, nel bellissimo St James Park.
Due scelte che escono dai canoni imposti dalla tradizione ovale e che affascinano non poco. Bilbao ha lo charme di una Spagna decisamente “altra” rispetto a mete come Madrid e Barcellona, Spagna che ha già dato prova di riempire gli stadi per partite di rugby nonostante non abbia certo una grande tradizione nella disciplina.
Newcastle invece ci riporta in una parte di Inghilterra che è innamoratissima del calcio e dove invece il rugby fa non poca fatica ad attirare spettatori. Due scelte in qualche modo di confine, anche se per motivi diversi tra loro.

Una domanda però dobbiamo farcela: e l’Italia dove è finita? Quell’Italia che nel 2013 aveva ottenuto l’onore e l’onere di ospitare la finale dell’Heineken Cup 2015 in quel di San Siro a Milano. Dove è? Come è noto il tutto poi saltò per cause di forza maggiore: l’implosione dell’ERC per le lotte intestine tra club inglesi e francesi che portarono poi alla nascita dell’EPCR, che decise per quella edizione di andare sul sicuro giocando la finale della nuova Champions Cup a Twickenham (e fu un flop con solo circa 50mila tifosi sugli spalti…).
L’Italia e la FIR fecero l’unica cosa possibile in quel frangente, ovvero far buon viso a cattivo gioco davanti a una evidente delusione, sicure di avere le carte in mano per ottenere di nuovo quel prestigioso traguardo piuttosto presto.
Invece niente. Sarà la Spagna il primo paese ad ospitare le due finalissime al di fuori di Inghilterra, Scozia, Irlanda, Galles e Francia. Ma noi, a differenza della Spagna, siamo pure nel Sei Nazioni.

Insomma, è uno smacco, inutile girarci attorno. In occasione del doppio derby celtico di Natale 2015 il presidente Gavazzi a Milano aveva detto che c’era una candidatura FIR per ospitare la finalissima nel giro di 3-4 anni (e la finale del Pro12 nel 2017). Possiamo raccontarci quello che ci pare, ma la scelta della sede di una finale di Champions Cup è un qualcosa di eminentemente politico: noi oggi non abbiamo peso. Per mancanza di risultati, per una crescita che si è inceppata. I motivi sono tanti, diversi, ma il risultato è quello: Bilbao e non Milano o Roma. Stadi non all’altezza? Beh, Milano ha ospitato la finalissima di Champions League di calcio meno di un anno fa, Roma ospita le gare del Sei Nazioni ogni anno… E se c’è qualcosa da sistemare da qui al 2018/2019 c’era tutto il tempo.

Probabilmente non siamo mai stati molto importanti in Ovalia, politicamente parlando, però la finale 2015 – complice anche il traino di EXPO – l’avevamo comunque ottenuta. Tra l’altro con lo stesso presidente federale che c’è oggi: Gavazzi allora era riuscito a far fruttare al meglio le relazioni che Dondi aveva costruito negli anni, quel Dondi che per conto dell’Italia si è seduto nel board di World Rugby fino al 2016. Il “chi” e il “come” si gestisce la federazione ha una sua oggettiva importanza, negarlo sarebbe piuttosto stupido, ma siamo sicuri che con un nome differente alla guida della FIR le cose sarebbero andate diversamente? Io questa certezza non ce l’ho.
Non è semplice conoscere i veri perché della scelta di Bilbao e non di Milano o Roma, sono cose che rimangono generalmente chiuse dentro la stanza dei bottoni, ma porsi la questione è comunque un esercizio utile, a prescindere dalla risposta che ci si dà. E se alla fine la discussione dovesse fermarsi al solito “Gavazzi sì Gavazzi no”, beh, allora avremmo perso due volte.