La ballata di Heathcote e Warburton: il blues triste del rugby moderno

Due storie diverse, eppure molto simili, finite sui giornali a poche ore di distanza l’una dall’altra. E che dovrebbero spingere il rugby a farsi qualche domanda

Sam Warburton, solo 30 anni da compiere il prossimo 5 ottobre, lascia il rugby giocato. Uno dei giocatori più forti e determinanti nel suo ruolo (e non solo) degli ultimi 10 anni appende gli scarpini al chiodo perché non ce l’ha fatta a recuperare da due infortuni che gli hanno fatto saltare interamente l’ultima stagione. Detta meglio: ha capito che non riuscirà a tornare ai livelli oggi richiesti dal rugby internazionale. I suoi 74 caps con il Galles, le sue 103 gare con i Cardiff Blues, la fascia da capitano con i British & Irish Lions che hanno costretto nell’estate di un anno fa gli All Blacks a pareggiare la serie con la prestigiosa selezione sono ora nel bagaglio dei ricordi di un ex giocatore.
Tom Heathcote è uno scozzese di Inverness. Ha 26 anni, mediano di apertura, ha giocato con le maglie di Edimburgo, Bath e Worcester Warriors. Ha vestito le maglie della nazionale scozzese A, per tre volte quella della nazionale maggiore del suo paese e – per non farsi mancare nulla – pure quella dell’U20 inglese. Un giocatore di buona qualità che oggi è senza contratto: una serie di infortuni alla testa hanno limitato il suo utilizzo nel corso degli ultimi anni e il campo da gioco nell’ultima stagione lo ha praticamente sempre visto da lontano.

Due storie che sembrano lontanissime ma che invece sono molti più vicine di quello che una prima e superficiale impressione può lasciare. Perché entrambe ci dicono tanto sul rugby di oggi, uno sport in cui l’aspetto fisico oggi è sempre più centrale sovraesposto. Che lo si faccia per motivi tecnici o di mero spettacolo poco conta, perché  alla lunga i risultati sono (anche) questi.
Qualche ora prima che Warburton annunciasse il suo ritiro il Daily Telegraph ha pubblicato un articolo in cui si parte proprio da Tom Heathcote per raccontarci le storie semisconosciute di tantissimi giocatori che vengono “persi” per via degli infortuni. No, perdonatemi, anche questa cosa si può dire meglio: dei giocatori che rimangono senza contratto per via degli infortuni, che non è la stessa cosa. Perché Warburton, se avesse voluto, avrebbe potuto prendersi altri sei mesi o un anno per cercare di recuperare dai suoi guai fisici. Heathcote e quelli come lui no.
Perché Heathcote è in realtà clinicamente abile e arruolato, può giocare: lo dicono i medici. In teoria. La pratica è che i club non si fidano e quindi un giocatore che magari non sarà un fenomeno ma che ha comunque non poche qualità a oggi non ha una squadra.
E gli Heathcote sono tanti: secondo il quotidiano britannico il 14% dei giocatori che erano nelle rose delle squadre che hanno preso parte all’ultima Premiership non avranno un contratto e non saranno al via tra qualche settimana nella nuova stagione.

Certo, ognuno ha la sua storia, e tutte hanno le loro caratteristiche uniche. Qualcuno dirà che queste cose succedevano anche prima del professionismo. Vero, però il 14% sono davvero tanti. Il fatto è che i club hanno la possibilità di “tagliare” un giocatore se questi supera un tetto di mesi di stop per infortuni. E il Telegraph cita la vicenda di Max Davies, un anno fa tra i protagonisti dell’Inghilterra U20 arrivata seconda ai Mondiali di categoria del 2017 e il suo club – i Falcons – già lo scorso aprile gli ha comunicato che sarebbe rimasto senza contratto,
La combinazione tra un gioco sempre più fisicamente brutale e le necessità dei club rischiano di creare un mix davvero pericoloso per il rugby. La RPA, l’associazione dei giocatori inglese, ha stimato che solo un quarto di quel 14% alla fine riuscirà ad ottenere un qualche contratto e chiede che il problema venga quantomeno affrontato.
Forse accostare Warburton e Heathcote (e i suoi “simili”) è arbitrario, non lo penso, ma capisco anche che qualcuno possa sostenerlo. Forse non sono due facce di uno stesso problema, ma sono comunque aspetti tra loro accostabili e che devono spingere federazioni e World Rugby a farsi qualche domanda.

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Il meccanismo All Blacks, le concussion, il professionismo e l’importanza dei club: parla Francois Pienaar

Ieri a Milano l’ex capitano degli Springboks campioni del mondo 1995 ha incontrato la stampa italiana. Duccio Fumero lo ha intervistato per R1823, ecco le sue parole.

François, oggi gli All Blacks sembrano invincibili. Cosa c’è dietro a una squadra simile?
Sono veramente incredibili, ma non è qualcosa che nasce per caso. Loro hanno una cultura rugbistica, una tradizione incredibile. Pensate ai loro ultimi allenatori, al passaggio che c’è stato da uno all’altro. Non vi è mai stata una ‘rivoluzione’, non hanno…

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Scelte personali, niente conseguenze: se Sonny Bill Williams si comporta come il marchese del Grillo

SBW

Il neozelandese è tornato a far parlare di sé per motivi extra-sportivi. Una vicenda fatta di legittime convinzioni e di contratti di sponsorizzazioni (non personali) che non vengono rispettati senza che nessuno paghi un qualche dazio. Una storia, forse, fatta di figli e figliastri. Che inizia dai Radiohead.

A me la vicenda che riguarda lo sponsor sulla maglia di Sonny Bill Williams ha fatto venire in mente i Radiohead. Nell’ottobre 2007 la band inglese pubblicò sul suo sito il disco di inediti “In rainbows”, lavoro che ognuno poteva scaricare in via assolutamente legale a offerta libera: la scelta di dare 50 euro, 10 oppure nulla era a totale discrezione dell’utente/ascoltatore. Il lavoro arrivò nei negozi in forma fisica nel dicembre successivo.
Critica e addetti alla stampa andarono in sollucchero (lo fanno sempre quando di mezzo ci sono Thom Yorke e compagni. Qualunque cosa facciano, in maniera aprioristica) sottolineando quanto fosse rivoluzionaria questa maniera di distribuzione di un disco nuovo. E lo era, intendiamoci, però in pochi sottolinearono un aspetto evidente di quella vicenda: quell’operazione era possibile perché di mezzo c’erano i Radiohead, ovvero una band famosa, amata e stimata in ogni angolo del pianeta. Non conosco i dati economici dell’operazione, ma sono pronto a scommettere che il gruppo inglese alla fine non ci perse un granché rispetto a una vendita tradizionale. Anche perché nel 2007 le vendite dei dischi erano già poca cosa.

Cosa c’entrano i Radiohead con Sonny Bill Williams? Entrambi hanno potuto imporre e mettere in pratica le loro scelte in forza e grazie alla loro notorietà. Che se fossero stati dei signor nessuno… SBW lo scorso fine settimana è tornato in campo dopo il grave infortunio rimediato durante le Olimpiadi di Rio lo scorso agosto dove si trovava con la nazionale neozelandese di seven. Sceso in campo a Dunedin con i Blues nella gara di Super Rugby contro gli Highlanders ha fatto coprire il logo di BNZ presente sulla sua maglia: l’all blacks due volte campione del mondo è infatti musulmano e la sua religione vieta il prestito a interesse, evidentemente praticato dalle banche (quelle musulmane hanno sviluppato negli ultimi decenni diverse pratiche che consentono di superare – rispettandolo – questo ostacolo e il loro tasso di crescita è da tempo a doppia cifra).
Uno di quegli episodi che fanno discutere, con schieramenti che vanno formandosi tra chi difende il giocatore e chi invece sottolinea che il presumibilmente lauto stipendio di SBW è garantito anche da sponsor di quel tipo. E’ uno di quei casi in cui non se ne esce, almeno sul piano dei princìpi: entrambe le parti hanno le loro ragioni, inattaccabili. SBW ha tutto il diritto di manifestare le sue opinioni e convinzioni, BNZ ha dalla sua un contratto che parla chiaro.

A mio parere bisognerebbe centrare meglio la questione, facendo chiarezza sull’oggetto di cui si sta discutendo. E’ legittima la presa di posizione di Sonny Bill Williams? Sì, è una cosa che riguarda unicamente la sua coscienza, ma allora dovrebbe portare alle necessarie conseguenze il suo gesto, la sua scelta, ovvero non giocare per squadre che sfoggiano determinati loghi. Mohammed Alì, uno dei più grandi sportivi di sempre, per la sua scelta di non rispondere alla chiamata alle armi e andare in Vietnam fu accusato di renitenza alla leva, andò in carcere e per alcuni anni non poté salire sui ring perdendo tutti i suoi titoli.
Ora, nessuno chiede a SBW di finire in carcere, ci mancherebbe, ma se tieni tanto a una tua convinzione forse dovresti mettere sulla bilancia anche la possibilità di dover pagare un qualche prezzo. SBW chiede giustamente rispetto per le sue convinzioni, ma dovrebbe rendersi conto che magari non tutto il resto del mondo la pensa come lui e che quelle opinioni meritano il medesimo rispetto. Tanto più se di mezzo ci sono ricchi contratti che non lasciano spazio a molti dubbi. E se un’azienda paga per vedere il proprio logo su una divisa sportiva lo vuole vedere anche su quella dei giocatori più rappresentativi di quella formazione. Soprattutto su quei giocatori. Altrimenti diventa tutto troppo facile.

Sonny Bill Williams è uno degli esempi più lampanti di come il professionismo ha cambiato l’approccio al nostro sport. Complice un talento smisurato ha bene o male sempre fatto quello che voleva, tra rugby a 15, league, seven e pugilato. Si è districato tra contratti e contrattini che prevedevano tutte le scappatoie più congeniali per il percorso che lui si era scelto. E’ stato bravo, furbo e ben assistito. Ma un conto è discutere un accordo che riguarda la tua singola persona, un altro mettere in discussione una sponsorizzazione in essere.
Senza dimenticare il “paradigma Radiohead”: perché siamo sicuri che la NZRU (che ha già annunciato che anche nelle prossime gare il trequarti vestirà una maglia appositamente creata ad hoc per lui, senza gli sponsor “incriminati”) si sarebbe comportata alla stessa maniera se se ad essere coinvolto non fosse quello che oggi è forse l’unico giocatore-copertina del rugby mondiale?

Lo Cicero torna a parlare. Ma solo di calcio…

Non parla da tempo con i giornali. Rientrato da poco nel giro azzurro Lo Cicero ha infranto questa regola autoimposta, ma di rugby nemmeno l’ombra.

Da La Gazzetta di Parma, la firma è diVanni Buttasi

Da Parigi con il Catania nel cuore. Andrea Lo Cicero, pilone del Racing Mètro, segue il campionato di calcio dalla capitale francese nei telegiornali italiani, dove riesce a vedere anche degli spezzoni delle partite, soprattutto quelle della compagine rosso-azzurra.
«Sono al Racing Mètro da cinque anni – sottolinea il rugbista siciliano, colonna della nazionale azzurra -: in campionato siamo secondi, a due punti dalla capolista. Ma sono attento anche alle vicende del “mio” Catania. Purtroppo siamo in una delicata posizione di classifica. Adesso abbiamo cambiato anche l’allenatore (Simeone, ndr) e spero che il suo arrivo dia una scossa a tutto l’ambiente. Con tanti argentini in squadra, lui saprà trovare le giuste motivazioni e mi auguro che la ventata di novità porti anche dei punti, a cominciare proprio dalla partita con il Parma. Purtroppo, nel mondo del calcio, spesso non viene dato tempo all’allenatore di progettare, perché si vogliono subito i risultati».
Il pilone catanese del Racing Mètro si sofferma un attimo anche sul Parma: «Conosco bene
la città, un po’ meno la squadra, anche se ho visto che ha gli stessi punti del Catania: il suo percorso è simile a quello della mia squadra. Oggi, però, potrà contare sul sostegno del pubblico: è un aspetto da non sottovalutare. Pronostico? Spero che vinca il Catania, anche se le due squadre sono affamate di punti e una sconfitta potrebbe complicare la loro classifica. E poi il nuovo allenatore, magari, darà la carica giusta».
Lo Cicero si considera un «italiano atipico» e spiega il perché: «Gioco negli stessi orari
delle partite di calcio, così mi risulta difficile seguirle in diretta anche se il calcio è uno sport
molto bello. Talvolta, purtroppo, rovinato da alcuni delinquenti che dovrebbero stare in
carcere. Mi spiace che accadano cose di questo genere che fanno molto male allo sport».