
Un campione straordinario che però – suo malgrado – ha vinto davvero poco in maglia azzurra: il 25% dei test giocati e il 15% dei match del Sei Nazioni a cui ha preso parte. E se con Galles e Scozia dovessero arrivare due ko toccherebbe le 100 partite perse (su 134 totali)
I giocatori-simbolo sono tali perché il loro valore trascende il mero aspetto tecnico, sportivo e agonistico. Diventano iconici, rappresentano un’era (sportiva) e in quanto tali diventano anche un esempio per le generazioni successive: i ragazzini vogliono diventare come quell’atleta, spesso abbracciano una disciplina proprio per seguire quel percorso sognando di ripeterne i passi.
Nell’epoca in cui viviamo, dominata dall’immagine, avere un certo tipo di rappresentazione pubblica può aiutare non poco: Martin Castrogiovanni è di sicuro uno dei nostri rugbisti più amati di sempre e di sicuro il suo aspetto ha aiutato farlo entrare nell’immaginario collettivo. I capelli lunghi, la barba (al pari di Chabal, ad esempio) e quel pizzico di pancetta che lo rendeva molto più “umano” rispetto a certi superman lo hanno fatto entrare nel cuore della gente, colpita ovviamente anche dalla sua bravura e dalla grinta con cui ha affrontato centinaia di partite.
Se però dobbiamo indicare un giocatore-simbolo del rugby italiano questi è sicuramente Sergio Parisse, atleta fortissimo e dalla classe infinita. Se fosse stato inglese, australiano, neozelandese lo avremmo visto all’opera con le maglie di quelle nazionali. Sì, anche quella degli All Blacks. Un professionista serio, capace di trascinare e dare l’esempio, di mettersi sulle spalle tante responsabilità. A volte anche troppe, secondo alcuni, cosa che in determinati momenti ha limitato le sue prestazioni. In poche parole: un campione straordinario.
L’altra faccia della medaglia è che Parisse è suo malgrado anche il simbolo di un movimento in grande difficoltà, di una nazionale che vince molto poco. Non è colpa sua, intendiamoci. E’ chiaro che in un gruppo si vince o si perde tutti assieme, ma essendo il rugby lo sport di squadra per antonomasia anche il fuoriclasse può fare poco. Voglio dire, nel calcio uno come Maradona con altri 4-5 buoni giocatori può far vincere scudetti o addirittura mondiali, nel rugby no. Grazie al fuoriclasse puoi magari vincere una o due partite, ma per andare oltre devi avere un gruppo di livello. E quello non può dipendere da te.
Sergio Parisse ha così vinto poco con la maglia della nazionale. Pochissimo. Le statistiche sono impietose in questo senso.
Eccole, aggiornate alla gara di Marsiglia contro la Francia:
25,37% di vittorie nelle partite giocate con la maglia azzurra, percentuale che crolla al 15,07% nel Sei Nazioni. Se l’Italia dovesse perdere nelle prossime settimane contro Galles e Scozia – cosa possibile, se non probabile – il nostro capitano toccherebbe le 100 sconfitte in nazionale, una cifra che non ha paragoni nelle nazionali Tier 1.
Non serve ripeterlo, non è certo colpa sua, Parisse è anzi il protagonista principe di quanto c’è di buono dalle nostre parti, rugbisticamente parlando.
Però se qualcuno avesse ancora il minimo dubbio sullo stato di salute del nostro movimento, tenga conto che i dati riportati qui sopra abbracciano 16 anni di gare della nostra nazionale. Sedici. Ecco.