
Avete visto come stanno correndo gli highlanders? Qualche anno fa hanno disegnato un piano a lungo termine e ora iniziano a raccoglierne i frutti. Noi invece non lo abbiamo mai fatto e andiamo avanti a fari spenti o a tentativi poco convinti. E le differenze si vedono
Succede sempre, dopo ogni tornata negativa della nazionale, sia essa il Sei Nazioni, un Mondiale o un mese di test-match (autunnale oppure estivo). Ormai è un riflesso quasi pavloviano, anche perché – diciamolo – di tornate negative ne abbiamo lo zaino pieno. La domanda che si pongono tifosi, appassionati e diversi addetti ai lavori è: perché non facciamo come il Galles/Irlanda/Scozia? Le tre opzioni divergono e vengono quindi scelte in base alle singole opinioni o allo stato di salute del momento delle tre nazionali.
Il pensiero alla base non è peregrino: l’Irlanda corre fortissimo, la Scozia è cresciuta paurosamente in una manciata di anni, il Galles sta un po’ vivacchiando ma è squadra capace di battere chiunque, quindi perché non copiare da uno di questi movimenti per rimettere in carreggiata il nostro?
Come dicevo poco fa ognuno ha la sua ricetta, la sua preferenza e ha al contempo bella pronta una serie di controindicazioni relative alle opzioni che non gli piacciono.
La Scozia è quella che va per la maggiore negli ultimi mesi, d’altronde i risultati ottenuti da quelle parti sono sotto gli occhi di tutti: fino a pochissimi anni fa era assieme all’Italia la squadra considerata meno forte e completa tra quelle del mazzo del Sei Nazioni. Poi il cambiamento. Nel 2015 si è vista sfuggire di mano una semifinale mondiale per un nulla, nel torneo continentale più importante è tornata a fare la voce davvero grossa con tutti, in questo novembre quasi batte gli All Blacks e rifila oltre 50 punti all’Australia. Non solo, le sue franchigie sono diventate competitive e negli ultimi anni hanno vinto un torneo celtico e si sono giocate una finale di Challenge Cup. Tutta roba che noi oggi possiamo sognarci. Ah, altra cosa che possiamo sognarci: il pubblico/seguito. In questo mese di novembre contro Samoa, All Blacks e Australia a Murrayfield si sono registrati tre sold-out (67.144 spettatori a match) per un totale di oltre 200mila biglietti staccati mentre noi tra Fiji, Argentina e Sudafrica non tocchiamo quota 58mila. Qui si parla non solo di spalti pieni o vuoti o di interesse mediatico, ma di soldi veri tra ticketing, sponsor e merchandising. Qualcuno può dire: facile fare i sold-out con gli All Blacks e l’Australia. Vero, ma noi con i wallabies non abbiamo riempito nemmeno il Franchi di Firenze. E a Edimburgo c’erano quasi 70mila persone pure per vedere la partita con Samoa. Non l’Inghilterra. Samoa.
Ma dicevamo della domanda, perché non fare come loro? Ecco, secondo me è malposta. Non conosco così ebene i dettagli del movimento scozzese (o gallese, o irlandese) per poter dire se davvero da noi potrebbe funzionare, perché alla fine gli aspetti da tenere presente sono tanti e diversi: i rapporti club-federazione, come funzionano i finanziamenti, le strutture dei campionati nazionali e regionali, il sistema di reclutamento, le academy, il ruolo della scuola e della cultura sportiva.
La domanda è malposta perché ritengo che bisognerebbe fare un passo ancora più indietro e capire una cosa: in Irlanda, in Galles o in Scozia a un certo punto si sono seduti a un tavolino e hanno stabilito un piano, un progetto operativo a media-lunga scadenza. Noi no. Possiamo star qui a discutere fino allo sfinimento se il sistema del draft da noi può funzionare o meno ma ci sfugge sempre questo dettaglio: noi un piano a lunga scadenza non lo abbiamo mai fatto. In Scozia sì (ma anche altrove) e una volta stabilito si sono messi al lavoro per concretizzarlo. Il draft è solo un aspetto di quel progetto.
Da noi si va avanti da tanti anni a spanne, a tentativi spesso poco convinti, si fanno due passi avanti poi uno a destra, uno indietro, tre a sinistra e due in diagonale. Si annuncia una cosa e poi alla fine se ne fa un’altra. Si dice che le franchigie devono avere tecnici italiani e nel giro di un paio di stagioni gli head coach sono di nuovo stranieri; che nell’arco di qualche anno l’obiettivo è di avere un ct italiano e oggi abbiamo una struttura che nei ruoli chiave è in gran parte composta da tecnici stranieri; abbiamo un campionato nazionale su cui le idee sono così chiare da aver cambiato il numero delle squadre partecipanti praticamente ogni anno nelle ultime 5 o 6 stagioni; si mette in piedi un sistema elefantiaco di accademie e centri di formazione e poi viene drasticamente ridotto dall’oggi al domani per motivi economici. E sono solo alcuni esempi.
Il movimento italiano dovrebbe farsi una sola domanda, ovvero cosa vuole fare da grande e dotarsi di un piano conseguente, a cui devono partecipare tutte le anime, dall’elite alla base, ovviamente sotto la guida della federazione. Copiare la Scozia, il Galles o i marziani deve venire dopo. Altrimenti è come costruire una casa partendo dal primo piano.
