Tra RWC2019 e i Mondiali in Russia: la lezione che il calcio ci può dare

Riflessioni e spunti tra i massimi appuntamenti di due discipline a loro modo molto vicine e molto lontane

Magari mi sbaglio (non credo) ma a scriverlo qualche giorno fa è stata la Repubblica, il giorno prima del via agli ottavi di finale dei Mondiali di calcio in corso di svolgimento in Russia: le combinazioni possibili per la finale, tenuto conto delle 16 squadre allora ancora in corsa, erano 64 e solo una era una sfida già vista, tra l’altro esattamente di 60 anni fa: Svezia-Brasile che nel 58′ finì 5 a 2 per i verdeoro che schieravano Garrincha, Didì, Vavà e un 17enne chiamato Pelé.
Certo l’assenza di Italia e Olanda che non si sono nemmeno qualificate per il torneo e l’eliminazione della Germania hanno scombussolato non poco le tradizionali gerarchie, però bisogna ammettere che 63 combinazioni su 64 sono una percentuale spaventosa.

Sono numeri che confermano che il calcio è di fatto lo sport più popolare del mondo. Non è solo una questione di numeri di gente che va a vedere le partite negli stadi o che le guarda davanti alla televisione, a dircelo sono proprio quelle 63 combinazioni inedite su 64 (e, lo ripeto, quella mancante ha un solo precedente di 50 anni fa…) che riflettono sul campo una diffusione di quello sport in ogni angolo della Terra.
Certo, lo sapevamo già prima del Mondiale di Russia, non è una sorpresa, ma quella rappresentazione plastica è di una enorme potenza simbolica. Probabilmente il torneo iridato in corso in queste settimane è da considerare una sorta di unicum proprio per via dell’alto numero di sorprese che si stanno registrando, sorprese che però proprio per la loro quantità – e spesso qualità – non possono essere un caso. Ci dicono che il livello medio si sta alzando e che il gap tra chi sta nel gotha della pallatonda e chi è fuori si sta riducendo.

Cosa che non si può dire del rugby, dove il tanto strombazzato allargamento è ancora in una fase largamente embrionale e limitata alla penetrazione nei media e nel pubblico di paesi e realtà finora ai margini di Ovalia. E’ una strada ovviamente lunga, lo è stata anche per il calcio, e che finora sta dando qualche risultato che però non tocca i campi da gioco. Perché sul prato verde le gerarchie sono quelle di sempre, immutabili, con un pugno di nazioni/movimenti che possono ambire a certi risultati mentre le altre possono solo sperare di ridurre la distanza, anche solo di un po’.
il rugby è uno sport complicato, non è una disciplina per tutti, non è affatto lineare e quella regola così caratterizzante del poter passare la palla solo all’indietro genera due tipi di reazione in chi la osserva: o ti incuriosisce e quindi ti affascina oppure ti fa dire “ma cosa fanno quei babbei?”.
Il calcio è un gioco semplice: con due maglioni si fanno le porte e ci si mette giocare ovunque, mentre se vai anche nei parchi d’Inghilterra è piuttosto raro vedere gente che gioca con la palla ovale.
Il rugby poi è nato negli esclusivi college dell’Inghilterra del XIX secolo e un po’ quell’appartenenza sociale se la porta ancora cucita addosso, anche se non dappertutto.

Sono differenze storiche, ambientali, normative e di “natura” delle due discipline in questione, che hanno decretato un successo larghissimo e piuttosto veloce per il calcio e una penetrazione più limitata (ancorché profonda, dove è avvenuta) per il nostro amatissimo sport. Il rugby per attecchire deve entrare nella cultura del paese che lo ospita, il calcio può farne anche a meno. Ha un peso specifico più leggero, è quasi uno sport “liquido”.
E il campo alla lunga non può che riflettere queste differenze: se da una parte abbiamo quella varietà di opzioni praticabili da cui siamo partiti, dall’altra abbiamo un Mondiale che ha incoronato quattro squadre diverse in otto edizioni ma che – soprattutto – ha visto arrivare alle fasi di eliminazione diretta praticamente sempre le stesse nazionali.
Pensateci bene: alla RWC 2015 c’è stata la clamorosa sorpresa nella fase a gironi del Giappone che ha battuto il Sudafrica, ma se dobbiamo pensare a un qualcosa di vagamente simile a quanto prima bisogna andare con il pensiero? Il rugby è un club ristretto, il calcio no. E il rugby dovrebbe imparare dal calcio ad allargare le sue maglie.

Non è una cosa che si fa dall’oggi al domani, non è un qualcosa che si può ottenere emanando qualche norma ma è un processo lungo e lento che però World Rugby sembra aver intrapreso, tra molte difficoltà. Bisogna avere pazienza, anche se il risultato non è garantito.
E servirebbe pure che gli appassionati della palla ovale fossero un po’ meno spocchiosi nei confronti della palla tonda: che è verissimo che sotto molti aspetti il “nostro sport è diverso” (basta guardare come si rivolgono i calciatori ad arbitri e guardalinee, tralasciando la diffusione tra i giocatori di simulazioni e urla belluine sullo stile di Neymar, tanto per intendersi) ma avere coscienza di una propria diversità è una cosa, fare perennemente quelli con la puzza sotto il naso prontissimi a dare lezioni di morale è un’altra. E alla lunga anche questa cosa può diventare un boomerang.

Problemi da emisfero sud: Australia, un paese che sta “dimenticando” il rugby a 15?

Un documento ufficiale del governo del paese down under dice che il rugby (union) non è nella lista dei 20 sport più praticati

Parliamo spesso, spessissimo di Italia e del suo movimento. Cosa ovviamente inevitabile, ma questo continuo guardarsi l’ombelico ci fa perdere – a volte – il panorama generale in cui si muove il nostro rugby. E a volte anche altri, con nomi (storie, tradizioni) ben più blasonati, passano dei brutti quarti d’ora. Ok, problemi diversi, un po’ come quello che era abituato al filetto e deve magari accontentarsi di un taglio meno nobile mentre noi siamo dalle parti della scelta tra toast e tramezzino.
L’Inghilterra – ad esempio – ha passato qualche anno di crisi da risultati agonistici, la Francia deve registrare meglio il rapporto club-federazione, Irlanda e Scozia hanno messo mano a una produzione (bruttissima parola, ma rende l’idea) di giocatori forse quantitativamente non all’altezza della bisogna. Ci sono i sudafricani, bravissimi a complicarsi la vita da soli. Chi non sembra avere mai problemi, o quasi, è la Nuova Zelanda, ma dalle quelle parti hanno dovuto aspettare 20 anni per vincere un Mondiale pur presentandosi ogni volta al nastro di partenza da favoritissimi. Qualche meccanismo da oliare c’era anche lì, quindi. Va da sé che si tratta di un elenco fatto su due piedi, che questi sono solo alcuni dei problemi che attanagliano qualsiasi movimento. Il paradiso in terra, anche ad Ovalia, non esiste.

C’è poi il caso Australia. Sono capitato per caso su un documento dell’Australian Sports Commission, l’ufficio governativo che si occupa di gestire la pratica sportiva in senso lato nella terra dei canguri. Sul sito ufficiale si legge che “11,3 million Australian adults participate in sport or physical activity three or more times per week” e che “17 million Australian adults participate in a sport or physical activity every year”. Senza dimenticare i più piccoli: “3,2 million Australian children participate in organised sport or physical activity outside of school”, il tutto un paese dove lo sport è parte integrante di (quasi) ogni tipo e livello di scuola. Il contrario di quanto avviene alle nostre latitudini. Ah: l’Australia ha in tutto 24 milioni di abitanti: la percentuale di chi pratica sport in maniera abituale e continua è quindi molto elevata.

Un quadro favorevole (eufemismo) alle discipline sportive. Come è messo il rugby? Male. Malissimo. Perché abbiamo sempre detto che il nostro amato sport deve battagliare con il calcio, il football australiano e – ovviamente – il rugby a 13. Ma l’AusPlay survey, ovvero il documento di cui sopra, ci dice che la situazione in cui si trova a dibattere l’ARU è molto più complicata. Guardate un po’ pure voi:

Rugby a 15 presente solo tra i bambini e nella parte bassa della classifica. C’è poi la classifica aggregata, diciamo così, sotto la dicitura “Club sport (Adults and Children combined) Top activities che vi presento nell’ultimo update di fine aprile:

Dove è il rugby a 15? Secondo il numero di All Rugby in edicola ora è addirittura al 24° posto. Possibilissimo. Non conosco le dinamiche demografiche e culturali della società australiana, ma come dicevo prima stiamo parlando di una realtà in cui lo sport è largamente praticato e in cui non manca certo una cultura sportiva. Dice: sì, ma una cosa è dover fare a gomitate in un panorama di questo tipo, un’altra è dover guerreggiare con un mostro a mille teste come il calcio in un paese con poca cultura sportiva e ove si fa sport solo fuori dalla scuola. Vero, ma l’intenzione non era quella di fare un paragone Italia/Australia, ma di presentare un aspetto (non l’unico) che negli ultimi anni sta minando uno dei movimenti-cardine del rugby mondiale.