Da Il Venerdì di Repubblica, di Riccardo Bianchi
Era il 2004 quando un gruppo di universitarie di Teheran partecipò al primo corso di avviamento al rugby. Mancavano pochi mesi all’elezione di Mahniud Ahmadinejad, che durante la campagna elettorale aveva promesso più libertà per le donne nel praticare e guardare lo sport. Nacque così la prima squadra di rugby femminile iraniano. Nonostante l’obbligo di giocare velate, nonostante le critiche dei familiari per quella disciplina
considerata violenta e, soprattutto, «maschile», spuntarono nuove formazioni in tutto il Paese.
Ma il successo del gioco si è scontrato subito con le restrizioni imposte dallo stesso Ahmadinejad, una volta diventato presidente. Per disincentivare le atlete gli uffici governativi, per gli allenamenti, non concedono i campi, ma solo le palestre. Agenti della sicurezza circondano le strutture e bloccano tutto se degli uomini si avvicinano a guardare. Ed è spuntata una nuova legge che vieta agli allenatori maschi di insegnare a squadre femminili, anche se non ci sono donne esperte: alcuni coach che non l’hanno rispettata sono
45 continuo dalla pagina precedente stati accusati di adulterio o di violazione delle nonne sul pudore.
Niente è riuscito però a fermare l’entusiasmo delle ragazze: né l’assenza di fondi per
organizzare amichevoli né la mancanza di un campionato: nel 2009 la federazione ha messo in piedi la prima rappresentativa nazionale femminile, l’ha affidata a un’allenatrice
neozelandese e l’ha spedita in Laos per una serie di amichevoli. Risultato: sei vittorie su sei partite. A quel punto il governo si è complimentato, assicurando che avrebbe mandato la
squadra ai giochi asiatici di Guangzhou, che si sono tenuti nel novembre scorso.
Poi ha cambiato i vertici della federazione e in Cina non ha inviato nessuna formazione. Faramarz Beheshti, regista iraniano, ha percorso settemila chilometri in tre anni per raccontare la storia delle ragazze della palla ovale. Cercava spunti per un film, ne è uscito
un documentario a mille voci, Salam Rugby. La stampa iraniana – senza averlo visto, dal momento che è vietato – ha scritto che è finanziato da Israele e che le ragazze intervistate sono delle sovversive. Invece le ragazze vogliono una cosa sola: capire il senso di tanta
feroce opposizione alla loro passione. «Il governo vorrebbe spingerle a stare in casa, o con le leggi o dipingendole come poco di buono» dice Beheshti. E le giovani si ribellano, a loro modo; coprendosi la testa con bandane americane, giocando truccatissime, facendo apprezzamenti sui ragazzi della security, mentre sono obbligate ad aspettare in pullman che dal campo dove si alleneranno escano i giocatori e i tifosi maschi. Salam Rugby sta facendo il giro del mondo tra rassegne e festival. A quello di Milano ha vinto il premio Diritti
umani, ma Beheshti non è potuto andare a riceverlo perché il visto non è arrivato in tempo.

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