Un’approfondita analisi di Rugby 1823
Il fallimento di Dahlia, figlio di una politica assurda dell’azienda, d’incompetenza manageriale e di una “situazione Italia” in cui il libero mercato è una chimera, ha riaperto, anche su queste pagine, un dibattito mai sopito. Una discussione che si concentra su due punti chiave: qual è l’importanza della visibilità mediatica del rugby nella crescita del movimento e quali sono le reali priorità che la Federazione deve avere per promuovere questa crescita.
Investire sulla tv o creare le strutture per permettere di giocare a rugby? Scommettere sui neofiti che si avvicinano grazie all’impatto mediatico, o costruire nel piccolo delle realtà di nicchia, ma solide? Due “fazioni” in perenne lotta, ma che forse, in verità, sono semplicemente le due facce della stessa medaglia.
Le certezze del rugby italiano sono poche, ma chiare. La palla ovale è, per buona parte della popolazione, una sconosciuta. La visibilità, al di là delle finestre azzurre, è praticamente nulla e la concentrazione territoriale della tradizione rugbistica è limitata. Con alcune eccezioni, con alcune macchie di leopardo sparse per la penisola, ma nulla più. Uno sport di nicchia spesso (purtroppo) felice di essere tale. Per un senso di superiorità (pochi ma buoni), o spessissimo per il mantenimento di uno status quo di potere. E ora torniamo al punto da cui siamo partiti.
Siamo così sicuri che scommettere sulla visibilità mediatica sia in alternativa con la volontà di far crescere il movimento dal basso? Siamo così sicuri che non vi sia la “copertura finanziaria” per ottenere entrambe le cose? Torniamo a Dahlia e alla Celtic League. L’ingresso italiano nella lega celtica, tra le varie cose, doveva far fare quel salto di qualità al rugby italiano anche da un punto di vista mediatico. Un torneo di livello superiore, due entità nazionali, che coprissero quei mesi tra il Sei Nazioni e i test match. Al tempo della scelta di Dahlia avevamo già espresso i nostri dubbi riguardo alla scelta dell’emittente. Poco conosciuta, poco visibile, a pagamento e “marchiata” dal porno. Ci venne detto che erano gli unici ad aver fatto un’offerta. Bugia. Erano coloro che avevano fatto l’offerta migliore. Economicamente parlando, non politicamente. Poco più di un milione di euro l’anno, spese di produzione coperte con circa 300mila euro e 800mila euro di “bonus” per il Board (come riportava Il Sole 24 Ore ai tempi dell’accordo). Soldi in cambio di mancanza di visibilità, professionalità e garanzie. Una scelta suicida, come immaginavamo e come è stato confermato dai fatti.
Se il rugby vuole crescere in Italia da un punto di vista mediatico, infatti, deve smettere di pensare di essere il calcio. Non può massimizzare i profitti dei diritti tv, conscio che comunque il pubblico ci sarà. Deve iniziare facendo conoscere il prodotto. E qualsiasi economista, ma anche il più umile commerciante di paese, sa che per far conoscere un prodotto devi a. pubblicizzarlo; b. investirci; c. iniziare a venderlo magari sottocosto. Quindi, se si vuol far crescere il rugby da un punto di vista mediatico bisogna rinunciare al “bonus”, gestendo solo l’indispensabile. 300mila euro di produzione. Il valore, pressappoco, di una sponsorizzazione della nazionale. Quindi la Fir e il Board potevano benissimo accettare una delle offerte “peggiori”, ma che garantiva più sicurezza e visibilità. Aspettando di massimizzare i profitti in futuro, quando la Celtic League fosse appetibile per un pubblico più ampio.
Ma così si sacrifica il movimento in basso, viene detto. Falso! Il bilancio federale è ben più ricco dei costi di produzione di un torneo come la Celtic League. Quello che manca, in Fir, non sono i soldi, ma la volontà politica di far crescere la base. Basti vedere come, da Milano alla Sicilia, dal Veneto alla Sardegna, siano decine le società in crisi, senza soldi, senza strutture, cui la Federazione non dà una mano. Investire sulla base è il primo punto che qualsiasi politica manageriale che sappia programmare il futuro (remoto, non quello prossimo. Il dopodomani, non l’oggi e il domani) dovrebbe fare. Ma non è stato fatto. A prescindere da televisioni, Celtic League o Nazionale. Ma semplicemente per la non volontà di farlo.
Visibilità mediatica e infrastrutture di base non sono due concetti in antitesi. Alto livello e basso livello non sono due nemici che si combattono e dove la sopravvivenza di uno significa la morte dell’altro. Allargare la base, far uscire dalla nicchia la palla ovale, rendere il rugby uno sport nazionale passa dalla televisione, dall’evento mediatico tanto quanto passa dal minirugby e dalle scuole.
Il problema è sapere e volere investire in questi settori. Seriamente. Programmando.