Domenico Calcagno per Il Corriere della Sera
Il 27 marzo del 1871, Scozia e Inghilterra si affrontarono a Raeburn Place, il prato che costeggia Stockbridge Street a Edimburgo, accanto alla palazzina vittoriana del Cricket and Football Club. Fu, quello, il primo incontro internazionale di rugby e l’embrione di tutto quello che sarebbe successo dopo, compreso il Sei Nazioni, giocato per la prima volta nel 1883 dalle Home Unions, Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda, le squadre fondatrici, e vinto dagli inglesi. Questa sera, a Cardiff, inizia l’edizione numero 128, le squadre, le Nazioni, da quattro sono diventate sei e il passare degli anni non ha incrinato il fascino del Torneo, lo ha solo trasformato in una macchina da soldi. Anche chi non ha mai assaggiato il Sei (o Quattro o Cinque) Nazioni come Sean Fitzpatrick, che ha però collezionato 95 maglie nere degli All Blacks, non ha nulla da obiettare sull’unicità dell’avvenimento: «È il torneo più bello che esista, anche se quasi mai in quel torneo si gioca il miglior rugby».
Ha ragione l’ex tallonatore. Il rugby più moderno, veloce, tecnologico e scintillante appartiene al Sud del mondo. Ma in Gran Bretagna, Irlanda, Francia e Italia, spesso con la pioggia battente e la minaccia della nebbia (non a Roma ovviamente), si gioca il Sei Nazioni, un evento consolidato da una liturgia ultrasecolare, che è stato per tantissimi anni un regolamento di conti tra britannici e celti e oggi è uno spettacolo in grado di produrre un impatto pari a 630 milioni di euro sull’economia della sola Inghilterra, di portare un milione e 100 mila persone allo stadio e di tenerne 300 milioni davanti alla tv.
Il rugby è nato ufficialmente nel 1823, quando William Webb Ellis, studente della scuola di Rugby, prese la palla tra le mani e cominciò a correre verso la porta avversaria tra gli sguardi esterrefatti di compagni e avversari. In realtà le origini del gioco sono molto più confuse e controverse e il primo abbozzo di regolamento venne scritto il 26 gennaio 1871, quando i rappresentanti di varie scuole inglesi si ritrovarono al Pall Mall (un ristorante) di Londra e, tra le altre cose, fondarono la Rugby Football Union, la federazione inglese. Da allora, ovunque andassero, gli inglesi non hanno mai rinunciato a mettere in valigia bastoni piatti per il cricket e palloni ovali. E se oggi i migliori nell’esercizio sono neozelandesi, sudafricani e australiani, il cuore, i luoghi sacri del rugby sono ancora tutti sull’isola, a cominciare dalla fortezza dei bianchi, Twickenham, lo stadio costruito nel verde di Richmond upon Thames, a ovest di Londra, su campi destinati nell’800 alla coltivazione dei cavoli. La Rugby Union comprò il terreno nel 1907 per 5.572 sterline, 12 scellini e 6 pence, l’anno successivo venne ultimata la prima tribuna e il «Cabbage patch», letteralmente: la cavolaia, diventò la casa dei Maestri.
L’evoluzione di Twickenham è l’evoluzione del rugby. Stadio piccolo e scomodo, ampliato un pezzo alla volta, seguendo la crescita della popolarità del gioco. Tra i ’60 e gli ’80 la partita dell’Inghilterra era uno spettacolo che cominciava molto prima del calcio d’avvio. Sui prati attorno allo stadio si perdeva il conto delle Rolls e delle Bentley posteggiate in bell’ordine mentre i rispettivi proprietari si dedicavano a raffinatissimi pic-nic. Tovaglie di fiandra, preziose porcellane e finissimi cristalli, pietanze ricercate e champagne. Era l’élite d’Inghilterra che andava a vedere il suo sport preferito, lo stesso sport che aveva giocato a Cambridge e a Oxford. Il gioco dell’Impero.
Oggi Twickenham raduna 82 mila persone a partita. Pochissimi arrivano ancora con le Rolls e le Bentley, quasi tutti viaggiano in treno. Nessuno si dedica più a sofisticati pic nic perché a Twickenham ci sono quattro ristoranti e un numero imprecisato di bar che aprono 90 minuti prima della partita e chiudono 90 minuti dopo. I discendenti degli habitué del pranzo sull’erba, compresi William e Harry, i figli di Carlo e Diana, oggi si radunano nel Vip’s Player Lounge, nel South Stand, dove pagando parecchie sterline si possono incontrare a tavola vecchi giocatori che raccontano le loro storie e, finita la partita, anche quelli che hanno appena fatto la doccia. Il tutto in un ambiente molto british, dove si respira quell’aria sospesa tra tradizione e familiarità più inglese del Big Ben e dove è vietata la cravatta essendo l’abbigliamento di rigore «emphatically informal».
In questo mondo esclusivo, l’Italia è entrata nel 2000. Ha preso molte botte e qualche volta (sette per la precisione) le ha date. Non è semplice per gli azzurri misurarsi con gente che ha il rugby nel dna, ma nonostante tutto il tempo è ancora dalla loro parte. Se la Francia ha impiegato 49 anni per vincere il Torneo, perché dovrebbe fare meglio l’Italia che domani contro l’Irlanda inizia il suo 12° Sei Nazioni?



