Inghilterra, quando la rosa ha troppe spine

La rubrica “mischia aperta” di Antonio Liviero, su Il Gazzettino

Vincere il Sei Nazioni dopo otto anni e sentirsi frustrati. Inimmaginabile per noi italiani. Ma normale in Inghilterra, paese dalle grandi ambizioni che punta alla terza finale consecutiva di Coppa del mondo e possibilmente a conquistarla. E che nel Torneo cullava il desiderio
del Grande Slam. Invece ci ha pensato l’Irlanda a rovinare la festa con una severa correzione (24-8). Dimostrando che destabilizzandoli in mischia e mettendoli sotto pressione nella zona di placcaggio gli inglesi sono battibilissimi. Inevitabile che le certezze dei Flood e degli Ashton ne uscissero incrinate. Tanto che nei giorni seguenti non è affiorata una sola nota di soddisfazione per il trofeo vinto, ma è stato un susseguirsi di dubbi, analisi e autoanalisi.
Il primo interrogativo riguarda la leadership. Un gruppo molto giovane e pieno di qualità tecnica che sembra però sprovvisto di uomini dalla forte personalità, come era Johnson ai tempi della Coppa del mondo in Australia, in grado di raddrizzare situazioni difficili. La sconfitta con l’Irlanda ha evidenziato anche la necessità di alzare l’intensità del confronto fisico per non vedersi privati delle basi del gioco. Ma è proprio quest’ultimo, il gioco
di passaggi tanto osannato nelle prime partite, ad essere stato messo in discussione. A
Dublino ha mostrato tutta quella impotenza che si era già rivelata per lunghi tratti
contro la Francia. Quando i palloni vengono rallentati nelle fasi a terra e si caricano
di pressione pack e dintorni, l’Inghilterra sembra non saper trovare risposte. Ripropone
nevroticamente la stessa manovra sterile. Non alterna le opzioni offensive, usa
raramente il gioco al piede (al contrario di quanto fatto con saggezza dall’Irlanda calciando
metà dei possessi) persino quando ha in campo Wilkinson. Obbedisce dogmaticamente
a un piano di gioco prevedibile. Tanto che in 80 minuti non le è mai balenato per la testa di saggiare sui palloni aerei l’affidabilità di Earls nel ruolo di estremo. Insomma, se un tempo il
quindici della Rosa era considerato monotono nell’uso del piede, oggi paradossalmente,
sembra esserlo in quello delle mani. Cambiano le forme di gioco, ma l’aggettivo che le qualifica resta lo stesso.
La questione investe direttamente la coppia di centri. Hape e il gigantesco Banahan
sembrano a corto di iniziative e a malpartito nell’adattarsi alle contingenze tattiche. Sono scomparsi di fronte allo smalto degli omologhi del Trifoglio O’Driscoll-D’Arcy. Certo col rientro di Tindall la lettura degli spazi potrà migliorare. Ma il nodo sembra essere piuttosto
quello di utilizzare un primo centro con doti di playmaker. Si invoca il nome di Wilkinson,
a fianco di Flood apertura. Viene in mente allora che i due hanno già giocato insieme, a posizioni invertite. Va a vedere che la rivoluzione di Johnson finisce col ritorno di Jonny all’apertura. Il rischio non è però quello di un doveroso riequilibrio tattico, ma di un drastico ridimensionamento delle ambizioni di gioco. E tutto per una partita persa.

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